Al vivaismo non basta più saper produrre bene, ma deve farlo all’interno di norme da rispettare e servizi aggiuntivi da fornire per promuovere e affermare le proprie produzioni. È questo lo scenario attuale in cui opera il vivaista moderno, una figura distante anni luce da quella dell’artigiano esperto nell’arte di propagare, seminare, innestare, allevare, custode di una tradizione e di segreti che si tramandavano da generazioni.
Qual è lo stato del vivaismo italiano alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo regime fitosanitario per le piante e della contemporanea piena attuazione delle norme che hanno riclassificato le categorie qualitative dei materiali di propagazione vegetale? È pronto a fronteggiare queste nuove sfide?
La risposta è positiva: sulla spinta dei vivaisti e grazie alla sensibilità e disponibilità del Comitato fitosanitario nazionale (Mipaaf e Servizi fitosanitari regionali) sono stati licenziati gli schemi per la certificazione volontaria per molte specie d’interesse strategico per l’Italia come actinidia e carciofo, cui si aggiungono quelli per piccoli frutti, fico e nocciolo.
Il Civi-Italia svolge un delicato ruolo nell’istruttoria delle domande di certificazione volontaria nazionale su mandato del Mipaaf e dei SFR, realizzando così in parte quel processo virtuoso che deve vedere pubblico e privato collaborare strettamente per far sistema comune.
Le organizzazioni vivaistiche – Cav e Civi-Italia – hanno proposto e stanno attuando nuove procedure tecniche per una più rapida verifica dei due requisiti base dei processi di certificazione: assenza di organismi nocivi e sicurezza sanitaria, corrispondenza varietale e certezza genetica.
Tutto ciò si realizza attraverso l’utilizzazione di tecniche di diagnosi molecolare d’avanguardia come la “Digital Droplet Pcr” (meglio dettagliata di seguito nell’articolo di Simona Botti e collaboratori) o con le prime simulazioni delle tecniche Ngs (“Next Generation Sequencing” ovvero sequenziamento genico di nuova generazione) per raccorciare i tempi dell’immissione di accessioni di nuove varietà negli schemi di certificazione volontaria e per avere totale sicurezza sulla sanità dei materiali.
Alcuni aspetti più strettamente tecnici meritano di essere menzionati, come la proposizione di nuove tipologie di prodotto. Basti citare i casi della fragola dove, oggi, l’offerta riguarda piante frigo-conservate, “waiting bed”, piante fresche a radice nuda, piante fresche in vasetto – “minitray” o “tray”; del melo, con astoni non ramificati, ramificati per fusetto, “knip” di 2 anni con ampia ramificazione e immediata entrata in produzione o con presenza di rametti corti, adatti per alte densità e per varietà tipo Gala e Cripps Pink; oppure le piante biasse/”Bibaum”; per finire con il nocciolo dove le piante micropopagate in vitro o prodotte da talee semi-legnose mono-nodali stanno affiancando e in alcuni casi sostituendo quelle tradizionalmente prodotte attraverso pollone da ceppaia. Inoltre, alla luce della crescente richiesta di prodotti biologici, alcuni vivai hanno allestito linee specifiche di produzioni per fornire materiali di propagazione bio idonei e subito riconosciuti nel processo produttivo, senza ulteriore perdita di tempo rappresentata dal periodo di conversione da convenzionale a biologico.
Per quel che riguarda l’innovazione varietale, atteso che i programmi di breeding pubblici non sono più finanziati, si assiste ad iniziative promosse e sviluppate dai vivaisti, in proprio o in accordo con produttori, associazioni di produttori e istituzione di ricerca.
Qualche esempio per testimoniare la vivacità del settore, ma anche utile per dare un’idea degli investimenti profusi da molte imprese: il Civ, con i programmi di breeding di melo e fragola; i Vivai Daniele Neri per pesche e nettarine; diversi vivaisti e le Università di Bologna e Udine per kiwi; sempre l’Università di Bologna e il Crea di Forlì per mele e pere; i Vivai Coop. Rauscedo con l’Università di Udine per le varietà di vite resistenti alle malattie; la rete d’imprese Italian Variety Club che raggruppa vivaisti, produttori, enti di ricerca, il gruppo Grape & Grape, il consorzio NuVat per le uve da tavola.
In Italia, i Vivai Braun sono i veterani nella gestione di nuove varietà di melo attraverso il sistema dei club varietali o dei brand (Kiku) ormai affermatesi in campo internazionale.
Altrove il vivaismo si è caratterizzato per la proposizione di impianti di olivo ad alta densità per raccolta meccanica in continuo. Modello ora attuato in larga scala su mandorlo e con le prime applicazioni su altre specie come albicocco, percoche, susino europeo, pero, agrumi e nocciolo. In Italia, anche i Vivai Buccelletti (Toscana) propongono un simile sistema per l’olivo.
In ultimo, alla luce dei nuovi regolamenti fitosanitari, il vivaista ricoprirà il ruolo di “risk manager”, ossia di primo responsabile dell’adozione di opportune misure atte a eradicare o contenere l’insediamento e diffusione di organismi nocivi e malattie, potendo anche essere assegnatario di ruoli e compiti ufficiali, come quelli previsti dalla nuova figura di “agente fitosanitario”.
Tutto ciò e successo grazie all’autorevolezza raggiunta dai vivaisti che hanno aderito nel corso dei decenni passati ai programmi di certificazione volontaria, prima su scala regionale e poi nazionale, sotto la guida e il controllo del sistema pubblico che dapprima ha saputo orientare e successivamente ha ricoperto una parte attiva nell’evoluzione e crescita delle imprese.
Si realizza così quella mutazione del ruolo del vivaista, non più agricoltore specializzato nella produzione di piante, ma imprenditore promotore di innovazione e fornitore di servizi e soggetto attivo del mantenimento dello stato sanitario delle colture. In questo nuovo scenario, restando di competenza pubblica i ruoli di sorveglianza e attestazione dei livelli di qualità raggiunti, l’imprenditore vivaista richiede solo efficienza e rapidità di controlli delle autorità preposte a tali ruoli.
Non si richiedono risorse aggiuntive o aiuti speciali, ma solo che i servizi propri della pubblica amministrazione permettano alle imprese di competere alla pari di quanto succede per colleghi di altri Paesi caratterizzati da una macchina pubblica più efficiente. Purtroppo, la maniera con la quale sono affrontate alcune emergenze fitosanitarie o il sistema di sorveglianza dei territori in ampie zone del Paese sono e restano del tutto insoddisfacenti.
Se da una parte c’è la cronica carenza di strutture e personale, dall’altra si assiste ad una sottovalutazione della politica dell’intero settore agricolo e delle figure dirigenziali che esso necessita. A titolo di esempio, è utile ricordare come in passato, per essere a capo di un Osservatorio per le malattie delle piante (ora Servizio Fitosanitario Regionale) bisognava essere in possesso di idoneità di libera docenza universitaria in materie afferenti alla fitopatologia o aver frequentato i corsi di specializzazione presso l’Università di Bologna.
Oggi è triste costatare che alla guida di questi uffici strategici ci sono ingegneri o avvocati, con le conseguenze che tutti conosciamo e con sistemi di reclutamento e bandi di concorso che non riconoscono l’estrema specializzazione delle professionalità che poi devono ricoprire tali ruoli.
L’auspicio è che un settore di eccellenza come quello del vivaismo italiano, riconosciuto ed apprezzato unanimemente all’estero per la validità delle soluzioni tecniche e dei prodotti offerti, con oltre il 40% del valore esportato, sia sempre rappresentato nell’agenda dei lavori e abbia l’attenzione che merita da parte dei vari dicasteri che si occupano di questioni internazionali.