L’Organizzazione delle Nazioni Unite stima che i parassiti delle piante e gli agenti patogeni causino perdite annuali fino al 40% per colture alimentari globali, lasciando milioni di persone senza cibo a sufficienza. Allo stesso tempo, vi è una forte pressione sociale e politica per diminuire l’uso di pesticidi e prodotti chimici per l’agricoltura, come si osserva anche all’interno del Green Deal europeo recentemente pubblicato, dove è prevista una diminuzione del 50% nell’uso di pesticidi prima del 2030. Tuttavia, i pesticidi sono ancora una base importante dell’agricoltura europea, poiché non sono ancora disponibili alternative efficaci. Si prevede anche che l’agricoltura biologica copra il 25% dei terreni agricoli nel 2030, con l’idea che tale strategia comporti un miglioramento della sostenibilità e della qualità delle produzioni europee. La protezione da parte della resistenza delle piante ospiti è generalmente considerata la strategia più desiderabile ed ecologicamente corretta per controllare patogeni e parassiti, ma troppo spesso ci manca la capacità di usare le poche fonti di resistenza genetica ancora presenti nella biodiversità disponibile, anche per la difficoltà nell’applicare le nuove tecnologie che possono agevolare il trasferimento delle resistenze genetiche nelle nuove cultivar di maggior valore commerciale.
Cambiamenti climatici e crisi fitosanitarie
Il settore frutticolo è sicuramente tra i più esposti agli effetti derivanti dai cambiamenti climatici che, in primo luogo, impattano sul ciclo di coltivazione delle piante (sfasamenti dei periodi di fioritura e raccolta), sulla qualità dei prodotti e, soprattutto, sulla capacità di protezione dai patogeni e parassiti, ora ancor più accentuata dalla frequente introduzione di nuove emergenze fitosanitarie. La difficoltà di controllo di una fitopatia o l’introduzione di un nuovo parassita può risultare devastante per specifici settori produttivi. Questo rischio è ora sempre più accentuato dalla continua riduzione di molecole chimiche ammesse per contrastare queste malattie, così come richiesto dai programmi comunitari.
Solo per fare alcuni esempi, abbastanza recenti, possiamo ricordare le seguenti emergenze fitosanitarie:
- Olivo e Xylella: un batterio che in pochi anni ha distrutto quasi interamente un areale produttivo, complice una commistione tra populismo e politica che è arrivata a criminalizzare non solo la scienza, ma la banale applicazione delle buone pratiche note nei secoli per contenere una pandemia anche nelle piante.
- Drupacee e PPV: l’agente virale della Sharka si è diffuso nelle principali aree di coltivazione soprattutto del pesco, minando la capacità di una delle colture frutticole più importanti d’Italia.
- Actinidia e Pseudomonas: la diffusione negli ultimi 10 anni di gravi focolai del batterio P. syringae pv. actinidiae (Psa) ha determinato enormi perdite di raccolto in tutti gli areali di coltivazione del kiwi nel mondo, compresa l’Italia, dove è una delle colture economicamente più redditizie. A questa si aggiunge la recente diffusione della “moria del kiwi”, determinata da diversi fattori tra cui, indirettamente, quello patologico.
- Pero e Stemphylium: il pero è molto importante per l’Italia, essendo la nostra nazione il maggior produttore ed esportatore in Europa. La produzione è concentrata nel Nord Italia, in particolare in Emilia-Romagna e Veneto, regioni che, nonostante un recente calo (fino al 30%), forniscono ancora fino al 30% della domanda europea di pere. Il motivo alla base di questo forte calo della produzione è dovuto principalmente alla maculatura bruna determinata dal patogeno fungino Stemphylium vesicarium.
- Agrumi e mal secco: il mal secco è una grave malattia vascolare causata dal fungo Plenodomus tracheiphilus ed è considerata il principale fattore limitante per il limone coltivato tra le aree del Mediterraneo e del Mar Nero.
Si tratta di un organismo nocivo da quarantena per l’EPPO (“European and Mediterranean Plant Protection Organization”) e, dalla sua rilevazione in Sicilia dal 1918 al 1953, ha distrutto almeno 12.000 ettari.
- Non dimentichiamoci poi delle malattie fungine (botrite, oidio, ticchiolatura e peronospora) che, nelle diverse forme, sono considerate le più gravi patologie di tante specie (di frutta e vite) in tutto il mondo, causando gravi perdite nei raccolti e nella qualità del prodotto, se non è permesso il corretto uso di fitofarmaci.
- Lo stesso anche per i parassiti come, ad esempio, la cimice asiatica, che sta contribuendo a compromettere le produzioni di pero e altre specie da frutto, e la Drosophila suzukii che è partita dal lampone e sta ora compromettendo diverse specie in coltura (fragola, ciliegio, ecc.), in diversi areali.
È chiaro che per affrontare queste emergenze fitosanitarie non bastano le indicazioni generiche ora previste nel “Green Deal” europeo; anzi, l’attuale strategia può solo accentuarne la diffusione e l’impatto.
Possiamo permetterci il “Green Deal”?
L’evoluzione dell’agricoltura si è sempre basata sullo sviluppo di tecniche agronomiche che hanno garantito la costante crescita produttiva e qualitativa delle produzioni alimentari. Il premio Nobel per la pace (1970) Norman Borlaug, aveva identificato come fondamentale per il progresso dell’agricoltura l’integrazione delle tecniche agronomiche con le innovazioni della meccanica, della chimica e della genetica. Questa visione ha permesso di creare nuovi sistemi agricoli capaci di promuovere sviluppo e risolvere notevoli problemi di sicurezza alimentare.
Sicuramente, molti errori sono stati fatti fino ad arrivare a eccessi, soprattutto nell’utilizzo della chimica, con i noti problemi di inquinamento e, se vogliamo, anche nella genetica, che ha determinato la sostituzione di buona parte delle varietà tradizionali. Ma questo non può portare a rinnegare i progressi ottenuti da queste tecnologie, arrivando a scelte come quelle previste nel nuovo Green Deal europeo che richiede l’abbandono del 50% dei pesticidi senza indicare soluzioni alternative per la protezione delle piante. Sostenendo poi che per migliorare la sostenibilità agricola europea sia fondamentale destinare entro il 2030 il 25% dei terreni agricoli all’agricoltura biologica.
È noto che l’agricoltura biologica non può garantire il sufficiente accesso al cibo per i cittadini europei, sia per la riduzione delle rese produttive, sia per la difficoltà di applicazione in diversi sistemi agricoli e per specifiche coltivazioni. Questo tipo di agricoltura risulta insostenibile, in quanto per la sopravvivenza necessita di continue sovvenzioni e c’è da chiedersi fino a quando le casse dell’Europa potranno permetterselo. Soprattutto se si metteranno al bando i pesticidi più efficaci, la prima a essere colpita sarà proprio l’agricoltura biologica, vista la notevole quantità di prodotti a base di metalli pesanti (rame e zolfo) che essa utilizza per la difesa delle colture biologiche.
L’opinione pubblica ancora pensa che in agricoltura biologica non si usino fitofarmaci o, nel caso, che siano comunque “fitofarmaci buoni”. Questa, come altre opinioni comuni sul biologico, deve essere sfatata così da arrivare a scelte e strategie utili a migliorare veramente l’agricoltura europea.
Se a questo poi si aggiunge il pregiudizio acerrimo contro l’applicazione di ogni innovazione tecnologica (nuove biotecnologie e nuove molecole) utile a risolvere le emergenze da affrontare, significa portare l’agricoltura verso un futuro di difficile sussistenza, con un forte impatto sulle realtà produttive, in particolare nel settore ortofrutticolo.
Ho apprezzato un recente scambio di opinioni tra un agricoltore e un rappresentante del mondo del biologico, dove si è sottolineata l’importanza di dare al più presto risposte concrete alle emergenze note nel settore frutticolo, senza continuare a sperperare risorse su approcci acclamati come panacee perché associate al mondo biologico - che arrivano all’esoterico, come nel caso del biodinamico - ma che in realtà sono come “il brodino della nonna” per curare qualsiasi malanno. Sappiamo già come queste strategie, spesso basate sulla commistione tra populismo e politica, portino a risultati disastrosi nel nostro settore, e il caso Xylella ci deve rimanere come esempio.
Basta esclusione serve integrazione
È chiaro che le alternative ai pesticidi rispondono alle esigenze politiche verso una maggiore sostenibilità, un campo della scienza riconosciuto e un termine ampiamente utilizzato nei media, ma ancora concetto complesso per il grande pubblico. La percezione dei pesticidi da parte dei consumatori è stata spesso studiata e identificata come rischiosa e collegata a effetti negativi. È importante, invece, includere esplicitamente la percezione sia del rischio sia del beneficio, per dare la corretta informazione ai consumatori, dando loro la possibilità di accettare le nuove generazioni di pesticidi. Questo stesso approccio deve valere anche nello studio dei benefici che possono derivare dall’applicazione delle biotecnologie, per contribuire a risolvere in modo appropriato e veloce le principali sfide ambientali e fitosanitarie dell’agricoltura.
Il concetto di “agricoltura integrata”, generato da quasi 50 anni di ricerca e sperimentazione e da 30 anni di produzione, non può essere dimenticato, anche dalle Istituzioni che sono a favore del biologico e del biodinamico. Ci vuole più equilibrio. L’agricoltura integrata rimane il principale modello di produzione di frutta sana e certificata per il nostro Paese e per i Paesi Ue ed è importante continuare a comunicare questo messaggio e spiegare al consumatore che è una tecnica consolidata, che porta allo sviluppo di un sistema di coltivazione sostenibile, basato sull’integrazione delle tecnologie più efficienti e appropriate a risolvere le criticità che possono interessare un ciclo produttivo.
È altresì importante sottolineare il termine “integrazione” inteso come possibilità di esplorare tutte le conoscenze disponibili per trovare le migliori combinazioni per garantire quel compromesso “sicurezza–beneficio” che deve interessare ogni nuova pratica agricola. Questo principio deve contrastare il concetto di “esclusione” su cui si basa il biologico che, sostenendo con estrema arroganza possibili benefici delle pratiche proposte, ne esclude a priori altre che, invece, sono estremamente utili per raggiungere gli stessi obiettivi che l’agricoltura biologica si propone.
La discussione sulle nuove tecnologie rimane centrale
Nel 2020 è stato assegnato il premio Nobel per la chimica a Doudna e Charpentier per lo sviluppo della tecnica di “gene editing” del genoma denominato CRISP-Cas9. Questa tecnologia offre nuove opportunità per il miglioramento genetico delle piante. La sua applicazione sembra, però, sospesa dalla diatriba in atto sulla sua classificazione come Ogm, così come definito dalla sentenza della Corte di giustizia europea del 2018.
Questa situazione ne sta rallentando l’applicazione in attesa di sapere quale sarà la reale prospettiva di sviluppo, in funzione della futura classificazione al di fuori degli Ogm. Sicuramente, questo è un passaggio importante. A mio parere, però, i ricercatori non possono fermare le loro ricerche in attesa di una risposta comunitaria, ma devono dimostrare il valore di questa nuova tecnologia portando in campo le piante ottenute e mostrando i benefici che si possono ottenere.
Nel 2006, Fire e Mello hanno vinto il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia per il loro lavoro nel campo della “RNA interference”. L’interferenza dell’RNA (RNAi) è un processo biologico naturale, ben noto nella maggior parte degli eucarioti, in base al quale le molecole di RNA a doppio filamento (dsRNA) regolano l’espressione genica mirando a specifiche molecole di mRNA endogeno in modo sequenza-specifica.
La pandemia di Covid 19 sta piegando il mondo e solo i vaccini ci permetteranno di tornare a una vita “normale”. La tecnologia RNA ha permesso di ottenere e diffondere in pochi mesi nuovi vaccini altamente sicuri ed efficaci (Pfizer-Biontech e Moderna), basati sulla produzione di brevi sequenze di RNA messaggeri (mRNA), capaci di attivare il nostro sistema immunitario per proteggerci dal virus. Ora stiamo vivendo il più grande esperimento epidemiologico sull’efficacia di questa nuova tecnologia e sembra funzionare molto bene, visti i risultati già disponibili sull’effetto di questi vaccini nel controllo dell’epidemia in Israele, dove una buona fetta della popolazione è già stata vaccinata con questa nuova tipologia di vaccino.
La tecnologia RNA è da tempo oggetto di studio anche per risolvere problemi in agricoltura e molti studi hanno dimostrato che il bio-controllo basato sulle tecniche RNAi può essere applicato utilizzando due approcci: mediante espressione stabile in pianta (di interesse per aziende sementiere e vivaistiche che si occupano di propagazione e commercializzazione di nuove varietà resistenti e di alta qualità) o mediante applicazione esogena di prodotti formulati a base di RNAi (di interesse per aziende produttrici di prodotti e formulati da applicare in agricoltura). La rete di ricerca creata dal progetto iPlanta, comprendente più di 300 ricercatori, ha già ampiamente evidenziato le potenzialità di entrambe le soluzioni per raggiungere l’obiettivo di ridurre l’uso dei pesticidi in agricoltura (https://iplanta.univpm.it/).
Il nuovo Green Deal promosso dall’Ue ha degli ottimi propositi, ma non spiega chiaramente con quali soluzioni si possono raggiungere senza mettere a rischio il sistema produttivo e la sicurezza alimentare dei consumatori europei. Ho citato tre premi Nobel che hanno avuto e avranno un grande impatto sull’agricoltura e la società del futuro. Con tutto quello che ci aspetta e con quello che la scienza ci potrà offrire non rimane spazio per il “brodino della nonna” o per teorie esoteriche-steineriane-biodinamiche, da molti sostenute anche a livello europeo. Chi lo fa, si deve assumere la responsabilità dei danni che si avranno in futuro all’agricoltura e alla società.