Con poco meno di 2,2 milioni di ettari, pari al 17,4% della Sau totale, l’Italia è il terzo Paese europeo come estensione di superficie agricola condotta in regime biologico. Seguono la Francia e la Spagna a distanza ravvicinata. Gli operatori sono 86.000. Quindi possiamo affermare che si tratta di uno dei Paesi maggiormente attivi in relazione a questa forma di conduzione sostenibile, in tutti i sensi.
Nell’ambito dell’ortofrutta la tendenza è particolarmente rilevante, infatti, oltre il 10% della superficie biologica in Italia è dedicata ad alberi da frutto e orticole. In particolare, con i dati Ismea riferiti al 2020, possiamo distinguere tra 134mila ettari di frutta e 71mila di ortaggi bio, con forte aumento di entrambi i blocchi di oltre il 30% negli ultimi dieci anni. Non a caso colture come frutta (24,1%), agrumi (24,8%) e orticole (19,8%), superano abbondantemente la media italiana di Sau bio (17,4%).
Le ragioni di questo forte e sempre più rapido sviluppo non si risolvono con l’attenzione alla sostenibilità. Certamente, il presidio rispetto a produzioni realizzate senza ricorso a trattamenti chimici, maggiormente orientate a valorizzare pratiche di coltivazione naturali, di estrazione tradizionale, è determinante in termini di qualità e salubrità del prodotto, ma a questa componente si accompagnano altre considerazioni.
Cinquanta sfumature di sostenibilità
Si parla sempre di sostenibilità, ma in termini più ampi, ricomprendendo anche le tematiche relative alla sostenibilità finanziaria e alla conseguente tenuta fiduciaria nel momento in cui l’azienda ha necessità di reperire capitali a debito rivolgendosi agli istituti di credito.
Il mercato dell’ortofrutta, sempre con dati Ismea risalenti questa volta al 2021, ammonta a un totale di quasi un miliardo e mezzo di euro. Di questi, il 9,3% è composto da prodotti biologici.
Considerato che la percentuale cresce costantemente da cinque anni a questa parte, è opportuno analizzare non solo gli aspetti di sostenibilità ambientale e sociale ma anche i benefici dell’efficienza dal lato della redditività.
Prezzi più alti
I prezzi all’origine evidenziano la dinamica positiva del biologico, relativamente più performante del tradizionale. Mele e pesche, lato frutta, spuntano mediamente prezzi più alti del 35% e 38% rispetto agli stessi prodotti tradizionali. Per gli altri prodotti frutticoli le percentuali sono minori, mediamente intorno al 15% - 20% ma pur sempre significative.
A livello di ortaggi si evidenziano dinamiche analoghe. Cipolle e lattuga bio spuntano un prezzo del 70% e 50% più alto del tradizionale. Più contenuti quelli di pomodoro (tutte le tipologie) e patate, dove mediamente non si va oltre al 15% di differenziale.
Un’analisi della sostenibilità economica impostata in via prioritaria sulla contrapposizione tra costi e ricavi, rapportata in percentuale su tutte le produzioni, consente di valorizzare appieno la portata del differenziale.
Costi: la terra
Senza entrare nel dettaglio tecnico/agronomico della produzione tradizionale basta in questo contesto evidenziare le macro tipologie di costi per frutta e ortaggi.
I fattori terra, lavoro e capitale assorbono rispettivamente, in media intersettoriale, percentuali della Plv che vanno dal 75% all’85%. Dati ricostruiti con quanto riporta Ismea rispetto ai costi medi per produzione, corroborati dal valore medio dei terreni e dal tasso di interesse, posto arbitrariamente al 3%, fisso.
Di queste percentuali, lavoro e capitale rappresentano la parte più ampia, dato per scontato che il ragionamento sul valore dei terreni, affitto e proprietà, si distribuiscono per 80% e 20% in misura costante sulle aziende agricole, non supera una contribuzione ai costi del 5%.
Costi: la manodopera
Il lavoro è remunerato con una parte significativa della Plv, comprendendo le attività di conduzione diretta e la parte, altrettanto significativa, di utilizzo di lavoro stagionale. In riferimento al taglio medio delle aziende ortofrutticole e ai dati dell’occupazione stagionale per areale, è possibile stabilire anche in questo caso un intervallo percentuale di contribuzione che va dal 45% al 55% della Plv.
A carico del fattore capitale vengono compresi anche i costi amministrativi oltre che tutte le specifiche di dettaglio per i mezzi tecnici. Sempre in media viene quindi a colmarsi la percentuale complessiva con un range di contribuzione che va dal 30% al 40% della Plv.
Ovviamente le pratiche colturali per la produzione biologica hanno costi in percentuale modulati su specifiche diverse. L’assenza tendenziale dei prodotti chimici nei trattamenti produce un risparmio nell’acquisto dei mezzi tecnici.
Costi: le lavorazioni meccaniche
Le lavorazioni meccaniche, su tutte il diserbo, producono tuttavia costi aggiuntivi. Gasolio per la trazione delle macchine, ore di manodopera per la conduzione, usura dei mezzi e degli attrezzi.
Sempre a livello di media settoriale, è necessario considerare la contribuzione parzialmente negativa dal lato delle rese. Difatti, la limitazione nell’utilizzo dei mezzi tecnici può provocare carenze nella Plv.
Il costo dei fattori e le rese vanno a questo punto confrontati con i ricavi ottenibili. La sovrapposizione fra tradizionale e biologico evidenzia in prima approssimazione un differenziale significativo nella marginalità. È palese come questa differenza sia oggetto di ampia discrezionalità, dovuta a input di fattori e gestione costi non ottimizzati. Non ultimo anche il fattore meteorologico.
A conti fatti
In conclusione, ponendosi ancora in ordine di stima, la marginalità dell’agricoltura biologica è superiore a quella della tradizionale del 15-20% circa, senza tenere conto dei contributi a ettaro previsti dai Psr per la coltivazione in bio (in tutto 720 milioni di euro nel periodo 2023-2027), che farebbero crescere ulteriormente questi valori. L’evidenza conferma quindi la forte propensione alla conversione in questo come in altri settori di produzione primaria.
L’indagine sulla costruzione della catena del valore, entro l’ambito più ampio della filiera complessiva, estende altresì le considerazioni alla maggiore redditività della vendita al dettaglio. La più ampia marginalità pertanto diventa un driver di sviluppo che si riverbera su tutta la filiera.