Il biologico rallenta. Pesano le molteplici incertezze normative

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Sono molti i punti deboli della normativa italiana che dovrebbe meglio agevolare i controlli di qualità e la competitività delle imprese

Le decisioni politico-strategiche assunte negli ultimi anni da parte di organizzazioni multilaterali, quali Onu e Cop (Conferenza delle Parti), o da decisori politici quali Commissione e Parlamento Ue, pongono sfide importanti e decisive per il settore biologico e gli impongono di interrogarsi sul suo futuro per comprendere fino in fondo se sarà in grado di rispondere alla domanda di sostenibilità che promana da tali decisioni. Gli SDG’s, ovvero gli obiettivi dello sviluppo sostenibile definiti dalle Nazioni Unite, la strategia definita in ambito Ue Farm to fork per declinare un settore agroalimentare sostenibile e in grado di contribuire ad uno sviluppo socio-economico maggiormente sostenibile, la strategia definita per un rafforzamento della biodiversità e il progetto di ricostruzione post-pandemica denominata “Recovery fund-next generation Eu” che incentra buona parte dei finanziamenti disponibili su progetti di sviluppo sostenibili, vanno tutti nella direzione di riorientare i processi produttivi e le nostre scelte quotidiane verso comportamenti sostenibili, per ridurre il nostro impatto ambientale, aumentare la resilienza e contenere il cambiamento climatico derivante dalle nostre azioni.

Superficie e produzione biologica: Italia ancora leader

Il settore biologico dovrebbe partire con qualche vantaggio perché ha iniziato 30 anni orsono ad essere riconosciuto nell’Ue (Reg Cee 2092/91) e ha raggiunto risultati importanti sul piano sia produttivo che economico. Ancora una volta i dati censiti a livello internazionale fanno registrare una crescita della superficie biologica dal 2018 al 2017 del 2,4% raggiungendo oltre 71,5 milioni di ettari con un’incidenza media sulla Sau totale dell’1,5%.

Leggi il commento completo su rivista di Frutticoltura n.2/2021

Ortofrutticoltura biologica in Italia

 

Se analizziamo la suddivisione della Sau bio nazionale nelle differenti categorie con le quali possiamo individuare la produzione ortofrutticola del nostro Paese, possiamo sottolineare come la vocazione ortofrutticola dell’Italia sia testimoniata anche per quanto concerne il biologico.

Secondo i dati Sinab (Mipaaf) del 2019 (tab. 4) l’aggregato ortofrutticolo raggiunge una Sau di 302.832 ha, che corrisponde al 15,1% dell’intera Sau bio nazionale, mentre a livello planetario il peso della Sau ortofrutticola si colloca intorno al 3% e a livello europeo intorno al 5. Questi dati testimoniano plasticamente come l’ortofrutticoltura italiana sia presente nel paniere produttivo biologico in modo molto più consistente rispetto sia al panorama europeo, sia ancor più a quello internazionale.

Importante interrogarsi sul futuro del biologico

Ciò significa che l’Italia ha risposto alle esigenze di mercato che vedono l’ortofrutta biologica ai primi posti della domanda di biologico, ma ha anche dovuto implementare tecniche e strategie produttive in grado di superare le difficoltà agronomiche e fitoiatriche che caratterizzano la produzione ortofrutticola biologica.

Questo ha portato a “costruire” un’esperienza tecnica che è diventata patrimonio del nostro sistema produttivo nazionale, nonostante permangano molte problematiche tecniche irrisolte che portano ad eccessivi rischi produttivi e a notevoli perdite lungo la filiera; perdite che non vanno certo nella direzione di garantire il principio della sostenibilità che è alla base delle scelte strategiche con cui è stato aperto questo articolo.
I dati riportati rappresentano un punto di partenza importante e non un punto di arrivo, soprattutto se teniamo presente l’obiettivo posto nella strategia “farm to fork” di raggiungere entro il 2030 (mancano solo 9 anni!) il 25% della Sau totale dell’Ue in coltivazione biologica, quando nel 2018 era del 7,7%. Un obiettivo ambizioso che dovrà fare i conti con l’accettazione da parte del mercato e l’innovazione che sarà chiamata a irrobustire il metodo di produzione biologico; solo una profonda innovazione potrà aiutare il biologico ad essere più competitivo e sostenibile. Ecco perché oggi è importante interrogarsi sul “futuro del biologico” e per cercare una risposta plausibile è necessario capire quale sarà il “biologico del futuro”.

Solo una profonda innovazione potrà aiutare il biologico ad essere più competitivo e sostenibile

Normativa italiana inadeguata

Uno dei punti maggiormente critici che si frappongono al “biologico del futuro”, sembra strano, ma è la normativa vigente a livello sia europeo che nazionale. Quella che nel 1991 ha permesso il salto di qualità del biologico oggi potrebbe rivelarsi un appesantimento al raggiungimento degli obiettivi.

Siamo passati da una “normativa quadro” ad una normativa che interviene in modo esagerato sul processo e soprattutto sulla “rendicontazione” dei processi, ingigantendo gli adempimenti burocratici e ponendo seri limiti all’innovazione del settore. Stiamo arrivando al capolinea del completamento della legislazione a corredo del nuovo regolamento comunitario (848/2018) dopo un percorso avviato, con le prime bozze, nel 2014; un regolamento che ha “mescolato” il principio della certificazione di qualità con i controlli ufficiali, rendendo tutto più rigido, poco agile, molto complicato per un sistema che, invece, deve rispondere ad esigenze di mercato sempre più mutevoli e repentine.
Nella regolamentazione comunitaria vi sono dichiarazioni di principio sulla sostenibilità dei processi, sulla biodiversità, ma non si forniscono strumenti per valorizzare il biologico anche in ordine a queste esigenze sempre più premianti. Esigenze che si rischia di vedere maggiormente accolte in altri sistemi produttivi, paradossalmente meno normati e meno vincolati e vincolanti del biologico.

A livello nazionale siamo giunti al completamento in Commissione Agricoltura del Senato del tanto agognato (se ne parla almeno da 20 anni), e anche ultimamente contestato, DDL sul biologico che rischia di nascere già vecchio, rispondendo sicuramente ad esigenze legittime di finanziamento per lo sviluppo del settore, ma anche tralasciando di fissare criteri e principi per evidenziare i contenuti in materia di sostenibilità, magari collegati al logo nazionale. Invece, si è tornati ad occuparsi di controllo e certificazione quando la materia è stata abbondantemente e, spesso, in modo erroneo gestita nel fatidico DL 20/2018; tornare a dare la delega al Governo su questa tematica significa aumentare balzelli e burocrazia per un sistema produttivo già abbondantemente oggetto di controllo e garantito da uno dei migliori sistemi di certificazione, quello italiano appunto!

Sarebbe stato più utile attendere il completamento della “legislazione secondaria” che accompagnerà il Reg Ue 848/2018, ovvero il nuovo regolamento “capostipite” del biologico, e ridefinire il DL sul biologico italiano alla luce del nuovo quadro comunitario, inserendo elementi normativi coerenti con il nuovo quadro legislativo comunitario.

Valorizzare gli elementi di sostenibilità del biologico

In questo contesto si sarebbero potuti valorizzare gli elementi di sostenibilità del biologico per favorire il biologico nazionale in termini di emissioni, riduzione dell’uso dell’acqua di irrigazione e miglioramento degli sversamenti, impostare un processo produttivo che possa fregiarsi di un “benchmarking” in termini di emissioni in linea con il sistema di calcolo della Pef (“Product Ecological Footprint”) in uscita in ambito comunitario e premiare così i produttori biologici quali titolari di crediti di carbonio ovvero di emissioni in gas serra.

In termini di fabbisogno di ricerca, il DL fissa le procedure di reperimento delle risorse, ma non dà di fatto nessun criterio di prevalenza quando il biologico, invece, necessita di maggiore conoscenza per aumentare la qualità dei suoi prodotti e le rese commerciabili. Non dimentichiamo che il biologico deve rispondere alla richiesta di ridurre lo spreco lungo la filiera (ve ne è ancora troppo) e di fornire alimenti in quantità e qualità sufficiente ad una popolazione in crescita.

Le Tea devono trovare spazio nel biologico

Il biologico deve anche fare i conti con la genetica, non tanto per una questione di transgenesi (Ogm), ma per sviluppare politiche e tecniche di miglioramento genetico sufficienti a garantire varietà resistenti e/o tolleranti alle vecchie e nuove fitopatie. Le Tea (“Tecniche di Evoluzione Assistita”), basata sule nuove tecniche biotecnologiche (vedi “genome editing”) devono trovare spazio nel biologico. Non dimentichiamo, inoltre, che il DL, dopo 20 anni di discussioni parlamentari (e non solo…), non interviene sulla tematica della biodiversità, da molto tempo elemento di base della sostenibilità e del mantenimento di agro-ecosistemi in grado di supportare produzioni sempre più in sintonia con l’ambiente. Mancano elementi di sostenibilità sociale: il biologico, da questo punto di vista, deve essere al di sopra di ogni sospetto e rispondere agli obiettivi di sostenibilità non solo sul piano ambientale.

Il sistema di certificazione

Il DL si occupa ancora di certificazione e dipinge il sistema di certificazione italiano come un coacervo di conflitti di interesse; un disegno di legge che invece di rafforzare il settore spara su uno dei suoi pilastri, il sistema di controllo e certificazione che, notoriamente, è uno dei migliori in ambito sia europeo che internazionale. Non aveva alcun senso tornare su questa tematica dopo il recente DL 20 del 2018 e non lo aveva soprattutto in questo momento quando il sistema sarà comunque investito dalla nuova normativa comunitaria. Come si è sottolineato in precedenza, si tornano a ridefinire modelli e balzelli burocratici che investiranno il sistema delle imprese minandone la competitività.

Il biologico rallenta. Pesano le molteplici incertezze normative - Ultima modifica: 2021-03-11T11:15:33+01:00 da Lucia Berti

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