Riassetto dei sistemi agricoli, priorità ad ecologia e sostenibilità

sostenibilità
5I sistemi agricoli dovranno conciliare tecnologia e impatto ambientale.
Tra “ambientalismo apocalittico” e “tecno-ottimismo”, tra “rivoluzione verde” e “biotech”. Dai possibili eccessi di sviluppo tecnologico ad un nuovo approccio verso sistemi agricoli più vicini all’agro-ecologia, ma influenzati più dalla scienza e dall’innovazione che dalla tradizione. Entro il 2050 l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente potrebbe aumentare del 50-90% e porre severi limiti all’abitabilità del pianeta. Conoscenze di chimica, agronomia, fisiologia, biochimica, genetica e genomica si offrono a continui progressi e fanno intravvedere che l’aumento della produzione di derrate per unità di suolo coltivato siano possibili, contestualmente ad una maggiore resistenza delle piante agrarie agli effetti dei cambiamenti climatici.

Il problema

Da più parti ci si interroga su un tema a valenza globale: come conciliare una sufficiente produzione di cibo con l’utilizzazione di sistemi agricoli compatibili con l’ambiente, con le diete, con i cambiamenti climatici e con l’organizzazione sociale di Governi e Istituzioni nazionali e internazionali (Fao, 2018).

La domanda deriva dalla convinzione che, in un futuro non lontano, l’approvvigionamento di cibo possa entrare in uno stato di crisi: a livello planetario, si disporrebbe di meno cibo di quanto necessario. Se si considera l’interazione tra agricoltura e ambiente, la preoccupazione aumenta: sarebbe necessario arare più terre o usare più acqua per irrigare i coltivi o abbattere più foreste o usare più prodotti agrochimici.

Questo però peggiora la salute degli ecosistemi. L’agricoltura, oltre a farsi carico dei bisogni alimentari, deve considerare le diete che tendono a un maggior uso di proteine e calorie animali e le produzioni di bioenergia. Da qui la necessità di valutare gli effetti determinati dalle agrotecniche correnti e quali priorità hanno la conservazione della biodiversità del pianeta, la sostenibilità dei sistemi agrari, le azioni per controbilanciare i cambiamenti climatici e per contrastare il degrado dei suoli e delle acque (riassunto in Salamini 2014).

Nuovi sistemi agricoli possono essere sviluppati considerando politiche, finanza, aspetti legali, scientifici e tecnici, regolamenti e gestioni dell’ambiente, il gap tra i livelli di produzione correnti e quelli potenziali, e l’analisi dei costi-benefici dell’innovazione. È qui necessario considerare che il 40% delle terre libere da ghiacci è occupato dall’agricoltura, che l’80% delle foreste primordiali è stato sacrificato e che il 70% delle acque dolci è dedicato all’irrigazione dei campi. In questa situazione, la generazione di bioenergia e il mantenimento della fertilità dei suoli e della qualità delle acque superficiali e di falda delineano problemi di difficile soluzione.

Due ulteriori preoccupazioni:

  1. nel mondo, dal 2002 si è notata una ripresa della colonizzazione di terre vergini. Questa aumenta di 10 milioni di ettari per anno e nel 2030 saranno in coltivazione 200 milioni di ha di terre ora vergini. Queste terre sono più marginali di quelle già in uso e per questo la perdita di biodiversità sarà significativa;
  2. gli andamenti produttivi relativi a specifici areali agricoli e a sistemi spesso monoculturali indicano che gli aumenti della produzione per unità di terreno sono decrescenti nel tempo: non c’è aumento in 14 su 36 casi considerati. Gli aumenti segnalati per mais, riso, grano e soia sono superiori all’1% per anno, ma sarebbe necessario il 2,4% (Ray et al. 2013). Esiste cioè un “upper yield plateau” che corrisponde a una saturazione biofisica della capacità delle piante di produrre, e che dipende anche dai cambiamenti climatici (Gornall et al. 2010), dal degrado dei suoli, dalle politiche in atto nel settore agricolo, dal contenimento dei trattamenti chimici e dai bassi investimenti in ricerca.
sostenibilità
Le nuove agrotecniche saranno sempre più funzionali all’efficientamento dell’impiego di risorse non rinnovabili nei diversi agroecosistemi.

Il Lettore osserverà che da molti anni siamo esposti a questi dubbi e litanie, ma che la realtà e la capacità di intervento umano li ha poi vanificati. Tuttavia, un articolo di un autorevole gruppo di scienziati dimostra che tra il 2010 e il 2050 l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente può aumentare del 50-90% e, soprattutto, che può andare oltre i limiti di abitabilità del pianeta (Springmann et al. 2018a). La considerazione di quei dati induce al pessimismo, non tanto per il pericolo adombrato, quanto per la possibilità che lo stato dell’arte descritto non sia, in generale, recepito nella sua gravità. Non è stato il caso se le cinque più autorevoli organizzazioni internazionali che si dedicano alle produzioni agricole, al cibo e alla salute (i loro acronimi sono Fao, Ifad, Unicef, Wfp, Who), hanno prodotto congiuntamente un corposo documento che conferma le conclusioni di Sprigmann (Fao, 2019).

Possibili soluzioni: nuove piante agrarie e metodologie innovative

Ci limitiamo in questa nota a trattare temi quasi tutti oggetto di sviluppi recenti della biologia agraria. Tra questi emergono: piante immuni da microrganismi dannosi, perennialismo, fotosintesi, biomassa ed eterosi, stress abiotici, controllo degli insetti, microbiologia del terreno, prodotti alternativi a quelli animali. Verranno considerati anche gli sviluppi più avanzati di tecniche molecolari e di alcune agrotecniche.

Piante immuni dalle malattie da microrganismi

In agricoltura la riduzione del carico ambientale è correlata in modo diretto alla coltivazione di piante che resistono alle malattie e limitano il ricorso ai trattamenti chimici. Lo sviluppo di queste piante ha considerato una pluralità di strategie e particolarmente i geni R dominanti della famiglia NBS-LRR che, in tutti i vegetali, codifica per i recettori del segnale proveniente dal parassita. Negli ultimi anni è stato sviluppato con successo un approccio basato sulla perdita di funzioni di suscettibilità della pianta sostenute dai geni S (Wang et al. 2018). L’approccio prende corpo con la pubblicazione della sequenza del gene Mlo i cui alleli recessivi, nell’orzo, inducono la resistenza a tutte le razze del parassita (Buschges et al. 1997). Con l’acronimo LOS (“Loss of Susceptibility”) viene indicata questa forma di resistenza ereditata in modo recessivo. Sono noti mutanti LOS che disattivano la relazione tra ospite e patogeno e cioè sono mutanti in un gene dominante della pianta che sostiene lo sviluppo del patogeno.

L’immunità LOS conferisce una resistenza durevole. A conferma del ruolo futuro dei mutanti recessivi dei geni S nel controllo delle malattie delle piante coltivate, nella tabella 1 (tradotta e modificata da Zaidi et al., 2018) vengono elencati 19 geni S di 7 specie di interesse agrario per i quali sono stati indotti, in un breve periodo temporale (2012-17), mutanti recessivi ottenuti con metodi di trasformazione genetica o di “genome editing”. Le resistenze sostenute da questi mutanti riguardano oidio, Pseudomonas, Xanthomonas, Phytophthora, virus vari, colpo di fuoco batterico e altri patogeni.

Le resistenze recessive dei geni S sono associate a effetti pleoiotropici che riducono la “fitness” della pianta. Una strategia per risolvere questo problema è di utilizzare la variabilità presente nel germoplasma di una specie, associandola a sequenziamenti e fenotipizzazioni per resistenza ed effetto pleiotropico, con l’obiettivo di reperire alleli S deboli. Alternativamente, ci si può concentrare sull’individuazione precisa dei meccanismi molecolari della LOS alla ricerca di soppressori genetici (Collins et al. 2003) o l’analisi delle interazioni proteiche interessate (Hoefle et al. 2011; Huesmann et al. 2012; Kim et al. 2002). In senso applicativo è stata utilizzata, come è il caso dell’orzo, la selezione fenotipca contro gli effetti pleiotropici (Hückelhoven et al. 2013). In conclusione, il ricorso a condizioni di disattivazione di geni S ha aperto una nuova e sicura via alla produzione di piante immuni da malattie.

Perennialismo

Quaranta milioni di Km quadrati di suoli hanno condizioni ambientali che permettono solo un’agricoltura a bassa resa, sono cioè a rischio di degrado (Glover et al. 2010). Il loro sfruttamento è possibile coltivando piante perenni che riducono il consumo di energia e di prodotti agrochimici, gli effetti delle arature sulla perdita di suolo, l’eutrofizzazione dell’acqua e le perdite di azoto. Queste nuove piante dovrebbero anche modificare gli attuali sistemi agricoli (anche quelli in atto nel nostro Paese) e, in prospettiva lontana, permettere lo sviluppo di un sistema agricolo naturale, una “prateria coltivata” dove diverse specie agrarie erbacee perenni da seme costituiscono una policoltura (Jackson 2002).

Verrebbe ottenuta stabilità produttiva, riduzione dell’incidenza di malattie e danni da insetti e intensificazione della produzione in condizioni pedo-climatiche non ottimali. Le epidemie di insetti diminuirebbero per l’abbondanza di sorgenti di iperparassiti, la disponibilità di micro-habitat, l’aumento della stabilità delle associazioni predatore-preda e parassitoide-ospite. In Kansas, il Land Institute sviluppa linee perenni di grano, sorgo, Agropyron, oleifere e legumi. Ha recentemente rilasciato la linea Kernza, un grano perenne. L’Istituto tende ad allevare specie perenni in policoltura.

sostenibilità
I nuovi sistemi agricoli richiederanno un deciso intervento sui genomi delle piante agrarie?

In Oryza sativa si possono formare gemme basali che permettono il ricaccio di accestimenti vitali, mentre in O. rufipogon la stessa funzione è delegata agli stoloni e in O. longistaminata alla produzione di rizomi. O. sativa deriva da progenitori perenni e la pratica del doppio raccolto dalla stessa semina (Hill 2010) dimostra che il germoplasma coltivato mantiene ancora alcuni caratteri del progenitore, ma la produzione del secondo raccolto raggiunge solo il 40% del primo (Zhang et al. 2014). Le varietà della sottospecie japonica producono nuovi accestimenti più facilmente di quelle della sottospecie indica e vengono preferenzialmente utilizzate nello sviluppo di linee perennanti. Il programma di perennializzazione del riso condotto presso l’Accademia di Scienze agricole dello Yunnan ha avuto un certo successo. Si è basato sugli incroci di O. sativa con la specie perennante O. longistaminata. Tre regioni sul cromosoma 3 e 4 indicano che la specie perenne ospita i QTL RHZ2 e RHZ3 che sostengono la formazione di rizomi. L’attività di miglioramento genetico si è sviluppata con incroci, reincroci, auto-fecodazioni e selezione assistita da MAS, condotta con due marcatori per ciascuno dei due QTL citati. Una linea di particolare successo, PR23, nel periodo 2011-15 ha prodotto da 39 a 73 q/ha di riso per anno. Problemi persistono per mappare e utilizzare altri geni necessari per una più elevata espressione della capacità di formare rizomi e per eliminare la bassa fertilità delle linee introgredite con i geni di O. longistaminata. Sono al momento disponibili linee che, dalla stessa semina, in condizioni irrigue, producono 3 raccolti con buone produzioni (Sacks 2014).

Fotosintesi

Le piante convertono in energia chimica dal 2 al 4% dell’energia che intercettano (Kirschbaum 2011). L’arricchimento delle concentrazioni di CO2 nell’organello fotosintetico delle piante C3[1] aumenta del 30% la velocità fotosintetica (McGrath e Long 2014) e del 10% la sostanza secca accumulata. Si ritiene che quanto ottenibile variando la concentrazione di CO2 può riprodursi con il miglioramento genetico e/o con manipolazioni geniche (Stokstad 2016b; Kromdijk et al. 2016). Nelle piante C4 l’arricchimento del cloroplasto con CO2 è costitutivo e, come risultato, esse hanno alte rese fotosintetiche e di accumulo di sostanza secca (Whitney et al. 2011). Le reazioni di carbossilazione della fosfoenolpiruvato carbossilasi nel mesofillo fogliare e della Rubisco nella guaina dei fasci, sono separate nelle piante C4. Per questo l’utilizzazione dei meccanismi molecolari C4 per migliorare la fotosintesi C3 è difficile, in quanto presuppone la capacità di esprimere enzimi in tessuti e cellule anatomicamente diverse, o di ricreare specifici tessuti in piante C3 (McGrath e Long 2014).

L’aumento dell’efficienza fotosintetica si può ottenere: migliorando l’architettura della pianta; selezionando varietà efficienti nell’organicazione della CO2; riducendo la foto-respirazione; aumentando la funzionalità della foglia (“stay green”); stimolando per via ormonale lo “stay green”; aumentando la concentrazione di CO2; esprimendo la fotosintesi C4 in piante C3; orientando le file delle piante coltivate e degli assi fogliari nella fila; con pacciamature che riflettono la luce (Altieri 2018).

In un congresso internazionale sulla fotosintesi tenutosi dal 2 al 4 ottobre 2019 all’Accademia dei Lincei, sono state citati esperimenti effettuati in campo con piante modificate per fotosintesi migliorata utilizzando:
- la sovra-espressione di geni che trasformano il glicolato in gliossalato entro il cloroplasto, liberando qui CO2 (processo indicato come bypass fotosintetico). Il primo dei bypass si basa sugli enzimi glicolato deidrogenasi, gliossalato carboligasi e TSA reduttasi; il secondo sugli enzimi glicolato ossidasi, malato sintasi e catalasi; il terzo su glicolato deidrogenasi e malato che esporta il composto dal cloroplasto sintasi, associati alla soppressione, via RNAi, del trasportatore del glicolato PLGG1 al perissosoma (McGrath e Long 2014; South et al. 2019).

Un quarto bypass si basa sugli enzimi glicolato ossidasi, ossalato ossidasi e catalasi (Fig. 2; Shen et al. 2019). Le piante transgeniche per i bypass 3 e 4 (rispettivamente tabacco e riso) sono in grado di accumulare più sostanza secca dei controlli. Alternativamente al bypass è possibile sfruttare la capacità delle piante di evitare il danneggiamento della fotosintesi da eccesso di luce. Le piante hanno meccanismi per convertire parte dell’energia luminosa in calore. Quando il livello di insolazione diminuisce, il processo di difesa continua per un certo periodo anche a bassa luminosità. Kromdijk et al. (2016) dimostrano che piante di tabacco nelle quali la risposta fotosintetica viene accelerata durante il passaggio a livelli bassi di luminosità sono in grado di produrre in campo il 15% in più di biomassa. L’esperimento si basa sull’ipotesi che l’efficienza fotosintetica aumenta se si accelera il ritorno a condizioni di non dissipazione di energia luminosa in calore (basso “non-photochemical quenching”, NPQ) (Murchie e Niyogi 2011). Questo si ottiene esprimendo in tabacco 3 geni di Arabidopsis le cui proteine abbassano l’NPQ. I tre geni codificano per una sub-unità del fotosistema II (PbsS), una violaxantina de-epossidasi (VDE) e la zeaxantina epossidasi (ZEP). Nei transgeni il rilascio dell’effetto NPQ è accelerato e i risultati ottenuti in serra e in pieno campo confermano la superiore capacità di queste linee di assimilare CO2 e produrre biomassa (Stokstad 2016a).

Da qualche anno è iniziato un programma internazionale per introdurre la fotosintesi C4 in riso, una possibilità che potenzialmente potrebbe aumentare del 50% la produzione (Lin et al. 2016; Tyczewska et al. 2018). Il Consorzio riso C4 ha riflettuto sulla premessa che la fotosintesi C4 si è sviluppata in molte specie e che è probabile che il riso possieda ancora alcuni geni precursori di questa sindrome. I risultati del progetto per ora suggeriscono che la diversità anatomica tra le foglie C4 e quelle C3 dipende da una decina di geni, e la loro diversità biochimica da altri dieci.

Biomassa e eterosi

Gli studi che considerano le piante come fonti di energia riguardano per ora la scelta dell’organismo su cui puntare. Il ricorso ad adattamenti biotecnologici sarà poi necessario per trasformare la biomassa cellulosica in bioetanolo. I principali modelli per questi studi sono pioppo, miscanto, Panicum virgatum, Arundo donax, tutte specie perenni. I caratteri di queste piante da migliorare o da introdurre sono maschio-sterilità, qualità della ligno-cellulosa, efficienza fotosintetica, architettura della pianta, efficienza d’uso dell’azoto (Riar e Coventry 2013; Salamini e Ederle 2011), foto-respirazione (Maurino e Peterhansel 2010).

Il ricorso allo sfruttamento del vigore ibrido è stato un grande successo della genetica e del miglioramento genetico. L’eterosi, in questo senso, è un fenomeno a cui ricorrere anche nel futuro. Se si confrontano i cataloghi delle varietà coltivate attorno al 1960 con quelli attuali, si nota che nel tempo la costituzione di ibridi è diventata quasi obbligatoria anche per piante dove l’autogamia non favorisce una facile produzione del seme F1 (Duvick 1999).

L’aumento delle produzioni attraverso lo sfruttamento dell’eterosi è quindi proponibile anche per il futuro. I marcatori molecolari permettono di predire il valore genetico di linee pure e dei loro ibridi. Il loro uso ha seguito due approcci: studio delle relazioni che considerano le distanze genetiche tra linee pure e il livello di eterosi dei loro ibridi, e la scoperta e mappatura di loci QTL che determinano l’eterosi (Lariepe et al. 2012). In riso, è stato sviluppato un programma di produzione di ibridi basato sull’apomissia, dove una linea fecondata da polline estraneo è in grado di produrre semi uguali a sé stessa (Wang et al. 2019). Gli Autori citati hanno manipolato il gene del riso BABY BOOM1 (BBM1) che codifica per un fattore trascrizionale espresso nelle cellule spermatiche. L’espressione di BBM1 nelle cellule uovo induce partenogenesi. Questo è possibile se le stesse cellule sono state private, col “genome editing”, dell’espressione dei geni residenti BBM1, BBM2 e BBM3 (Lariepe et al. 2012; Mieulet et al. 2016). I semi ottenuti possono essere considerati una progenie clonale della linea madre che, se ibrida, mantiene nella progenie lo stato eterozigote e quindi il livello massimo di eterosi (Sailer et al. 2016). Sarebbe interessante utilizzare questo approccio anche per specie allogame di fruttiferi che si riproducono per seme.

Resistenza agli stress abiotici

La soluzione ritenuta più efficace per far fronte allo stato di stress è che le piante agrarie vengano migliorate per resistenza a siccità, calore, freddo, salinità, sommersione. I cambiamenti climatici in atto suggerirebbero di riservare una particolare attenzione ai danni da alta temperatura e da carenza di acqua. Chapman et al. (2012) individuano nel miglioramento genetico molecolare l’intervento più adatto per creare opzioni praticabili.

Nella tabella 2 si riporta un elenco degli eventi di trasformazione genetica registrati fino al 2010 aventi lo scopo di migliorare le piante per resistenza agli stress abiotici.
I recenti progressi della genomica fanno intravvedere la possibilità che l’aumento della produzione di derrate per unità di suolo coltivato, e contestualmente ancora una maggiore resistenza delle piante agrarie agli effetti dei cambiamenti climatici, siano possibili (Chapman et al. 2012). Il numero di specie agrarie con genoma decodificato aumenta costantemente e il miglioramento genetico ne trae sicuri vantaggi (Scheben et al., 2016).

L’ottenimento di varietà resistenti agli stress si basa su diverse strategie: utilizzazione della variabilità esistente per il carattere da migliorare, seguita da selezione dei genotipi superiori, questa assistita eventualmente da metodi molecolari avanzati; creazione di nuova variabilità; trasferimento, anche biotecnologico, alle piante agrarie delle conoscenze acquisite (Shankar e Shikha 2018).

sostenibilità
5La ricerca scientifica è chiamata a predisporre piante più idonee ai futuri sistemi agricoli sostenibili.

Le metodologie per misurare la variabilità genetica della resistenza agli stress sono note come segue: mappatura genetica e analisi QTL, mappatura GWAS (“genome wide”) per associazione (“association mapping”, AM), sequenziamento ad alta efficienza (“next-generation sequencing”, NGS), uso di SNP e InDels. NGS associata a GWAS aumenta la risoluzione di mappa utile per localizzare con precisione geni, alleli e QTL (Abberton et al. 2016; Varshney et al. 2014).

In molte piante agrarie, in prospettiva, il “genome editing”, e particolarmente il sistema CRISPR/ Cas9, è ritenuto molto utile per la ricerca sistematica, lo studio di funzione e l’utilizzazione nel miglioramento genetico di varianti geniche per la tolleranza agli stress (Jain 2015). I protocolli per la mutagenesi del genoma di piante agrarie con il sistema CRISPR-Cas9 sono disponibili.

La selezione genomica (GS) rappresenta oggi il più importante approccio utilizzabile per aumentare il potenziale produttivo anche in condizione di stress. La selezione assistita da marcatori (MAS) è una valida opzione per lo sfruttamento di fattori genetici responsabili dei QTL, in attesa che i QTL più importanti vengano clonati. Il clonaggio dei QTL, oltre a facilitare il loro trasferimento via marcatori molecolari, permette diverse applicazioni di ingegneria genetica e l’isolamento di nuovi alleli nel germoplasma disponibile (Kole et al. 2015; Salvi et al. 2007).

I fattori trascrizionali CBF/DREB in colza, pomodoro, frumento, mais e riso, inducono un certo grado di resistenza allo stress. Tuttavia, quando geni indotti da stress sono espressi (esempio, DREB1A), le piante di Arabidopsis mostrano un ritardo e una riduzione dello sviluppo. Il gene GA5, che codifica un enzima biosintetico per le gibberelline, co-espresso insieme a DREB1A, induce tolleranza allo stress senza alterare lo sviluppo della pianta (Kudo et al. 2018). Relativamente all’uso di singoli geni, Ashraf (2010) riportava, già 10 anni fa, successi per arachide, frumento, loglio, mais, petunia, pomodoro, tabacco; i geni utilizzati sono AhCMO, Ap37, APX5, AREB1, DREB1A, betA, BhLEA1, BuCMO, HVA1, MnSOD, mt1D, MYB15, OsCc1, OsRACK1, P5CS, PsTP, sacB, SINAG S1, TASTRG, Ta-Ub2, TPS, UTE, ZmAsr1. Riferimenti bibliografici in Ashraf (2010) e Zhang et al. (2018).

Un possibile approccio molecolare si rivolge all’uso di RNA di dimensioni ridotte (“small RNAs”), molecole di 19-27 nucleotidi che regolano diversi aspetti dello sviluppo delle piante. Queste molecole possono muoversi all’interno della pianta e così trasportare il loro messaggio che può regolare anche funzioni geniche per la resistenza agli stress abiotici (Hilbricht et al. 2008). Nell’ultimo studio citato, un callo della pianta Craterostigma plantagineum, prodotto via trasformazione genetica e opportunamente selezionato, acquisisce la resistenza all’essiccazione in assenza di acido abscissico. Il gene responsabile, CDT-1, codifica per un ta-siRNA in grado di aprire la via metabolica che conduce alla rigenerazione funzionale da tessuti vegetali secchi.

Relativamente alla minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici, Zhang et al. (2018) propongono l’addomesticamento di piante naturalmente resistenti agli stress abiotici (gruppi di piante definite come xerofite, idrofite, risorgenti, alofite, secreto-alofite, criofite e termofite). Sono disponibili tecnologie genetiche che possono condurre ad un rapido addomesticamento di nuove specie: sequenziamenti e individuazione di geni che controllano la sindrome da addomesticamento, “genome editing” utilizzando CRISPR/Cas9 con “multiplexing” (si veda oltre), trasformazione genetica.

Controllo degli insetti

Il controllo degli insetti è ormai quasi solo assegnato all’uso di prodotti chimici in grado di bloccare il metabolismo del target. Le molecole in uso sono dannose anche per gli insetti non target e possono persistere nei biotopi agrari. Possibili strategie si basano sull’ottimizzazione degli interventi e la definizione delle dosi, sulla selezione di molecole con un impatto ambientale minimo, sul trasferimento di quantità massime di molecole al target minimizzando la contaminazione ambientale e dell’operatore, tendendo ad ottenere prodotti agrari con il minimo di residui (Ekström e Ekbom 2011; Fanadzo et al. 2018).

Conoscenze di chimica, fisiologia, biochimica, struttura molecolare e funzione proteica, genetica e genomica si offrono a continui progressi. La lotta agli insetti deve però esplorare altri approcci avendo come nuova priorità la protezione degli ecosistemi, nella convinzione che la conoscenza degli organismi da controllare e delle loro interazioni biotiche possono condurre al biocontrollo (Bale et al. 2008; Stenberg 2017). Questo prevede l’uso di predatori naturali degli insetti noti come parassitoidi e il ricorso a virus, funghi e batteri, come Bacillus thuringiensis, Beauveria, Metarhizium, in grado di provocare la morte dell’insetto dannoso. Non è, in questo contesto, insignificante quanto è stato ottenuto ricorrendo a tecnologie transgeniche tese a modificare la pianta agraria per renderla resistente (Fedoroff et al. 2010), come nel caso del ricorso ai geni Bt per la difesa del mais contro la piralide.

Altre innovazioni propongono interventi che interferiscono con la biologia riproduttiva degli insetti. La disponibilità di feromoni sintetici consente di inattivare il loro sistema di comunicazione impedendo l’accoppiamento. La tecnica viene modulata con l’individuazione delle formulazioni e concentrazioni dei feromoni (Gordon et al. 2005). L’adozione in Trentino di questa possibilità dà il 100% di copertura in viticoltura per il controllo di Lobesia botrana e il 70% in frutticoltura per Cydia pomonella.
La gestione delle epidemie da insetti con pesticidi rappresenta un problema difficile da risolvere per le forme di agricoltura più ecologica. Questo e simili problemi sono spesso riportati come i fattori limitanti l’adozione di nuovi sistemi agricoli, specialmente da parte di piccoli agricoltori (Fanadzo et al., 2018).

Produzioni vegetali che limitano l’uso dei prodotti animali

L’umanità sta posizionandosi a livelli trofici molto elevati, dipendenti dall’aumentato consumo di prodotti animali (Tittonell 2016). Il miglioramento della qualità nutritiva dei prodotti vegetali offre una possibile alternativa. Si riportano alcuni recenti esempi, avvertendo che, frequentemente, il contributo a comprendere la qualità nutritiva delle produzioni agrarie è rimasto più uno sforzo accademico che la premessa ad applicazioni di miglioramento genetico.

Nella patata, utilizzando il “genome editing”, è stato possibile silenziare l’invertasi vacuolare correggendo così, con metodi non transgenici, il livello di zuccheri riducenti che alla cottura si trasformano in prodotti nocivi (Clasen et al. 2016). Con lo stesso approccio sono stati inattivati i geni per la polifenol-ossidasi che inducono l’imbrunimento dei tuberi quando processati. Il frumento è in via di modificazione per contenuto di glutine, livello di amilasi, disponibilità di ferro (Abid et al. 2017 e bibliografia citata). Shukla et al. (2009) hanno ottenuto via “genome editing” linee di mais a basso contenuto di fitato, inattivando il gene inositolo-pentadifosfato chinasi 1. Il fitato è il composto fosforato più importante del seme di mais; diminuendolo negli alimenti si riducono le perdite di fosforo.

Il dipartimento di agricoltura degli Stati Uniti ha approvato per il consumo umano un OGM di cotone che non accumula nel seme il gossipolo, composto tossico per gli uomini e gli animali monogastrici. I semi di cotone contengono il 23% di proteine e l’assenza di gossipolo li rende molto utili per integrare diete umane ricche di calorie, ma povere di amminoacidi essenziali. Il livello di gossipolo nei tessuti vegetativi dell’OGM rimane invariato, a garanzia che la resistenza agli insetti è presente e attiva nella nuova varietà transgenica (Waltz 2018).

Le ben note carenze dei cereali in contenuto proteico totale e di amminoacidi essenziali possono essere corrette con diete che contengano anche semi di leguminose. L’argomento è noto e riassunto propriamente in esaustive rassegne (Flight e Clifton 2006; Foyer et al. 2016).

La componente viva del terreno

Gli organismi presenti nel terreno agrario sono actinomiceti, alghe, artropodi, batteri, vermi, funghi, nematodi, protozoi. Essi decompongono sostanze organiche e inorganiche complesse; influenzano la fisica del suolo; attaccano i resti vegetali; sono micro-regolatori dei cicli biochimici del terreno; attaccano altri organismi; producono composti con metabolismi autotrofici; agiscono su cicli specifici come quelli di N, P, S; regolano le popolazioni di erbivori, patogeni, predatori; partecipano a simbiosi (Feitosa de Souza e Freitas 2018). L’attività microbica del suolo non solo influenza le sue proprietà, ma è necessaria al possibile bio-controllo delle patologie delle piante coltivate. I microorganismi del suolo sono, infatti, da considerare bioindicatori del suo stato di salute (Prashar e Shah 2016).

I fertilizzanti di sintesi e i pesticidi influenzano nel suolo il contenuto di elementi della fertilità, le attività enzimatiche e la diversità delle specie microbiche presenti. È vero che la concimazione azotata aumenta le produzioni, come osservato negli ultimi 100 anni, attraverso una superiore attività fotosintetica e l’aumento della biomassa radicale (LeBauer e Treseder 2008). Tuttavia, molti studi hanno riportato problemi ambientali connessi all’uso dell’azoto relativi al deterioramento delle falde acquifere e all’arricchimento di composti azotati nell’atmosfera (Gao et al. 2015). Se gli effetti a favore o contro non sono bilanciati, si inducono modifiche significative dei cicli del suolo con eventuale diminuzione, nel lungo periodo, delle produzioni (Feitosa de Souza e Freitas, 2018).

Il miglioramento dello stato chimico-biologico del terreno agrario è possibile con la selezione di varietà che tollerano le deficienze nutritive o gli stati di tossicità; l’aumento dell’efficienza dei concimi distribuiti a basse dosi; le arature ridotte; l’accesso a letame, compost, “cover crops” e sovescio; la fissazione biologica dell’azoto in prospettiva anche nei cereali; l’uso dell’Azolla nelle coltivazioni di riso; il miglioramento delle associazioni micorriziche; l’uso diretto di prodotti naturali come fertilizzanti (fosforiti e altri) (Altieri, 2018). Un intervento possibile riguarda il ricorso ad aggiunte al terreno di microrganismi utili.

Il concetto di microrganismi utili deriva dagli effetti che si ottengono inoculandoli nel terreno per modificare l’equilibrio tra i componenti e migliorare l’ecologia radicale. Consistono di una mescolanza di microbi benefici e le specie considerate sono batteri lattici (Lactobacillus plantarum; L. casei; Streptococcus lactis); batteri fotosintetici (Rhodopseudomonas palustris; Rhodobacter sphaeroides); lieviti (Saccharomyces cerevisiae; Candida utilis); actinomiceti (Streptomyces albus; S. griseus); funghi (Aspergillus oryzae; Mucor hiemalis) (Balogun 2016). I microrganismi più utilizzati per il bio-controllo e il bio-rimedio includono Bacillus spp, Pseudomonas spp, Streptomyces spp, Trichoderma spp e i funghi associati alle radici delle piante come micorrize. Producono ormoni, espandono il sistema radicale, inducono resistenze a parassiti della pianta, rilasciano nella rizosfera composti utili (Alori 2017).

I batteri che possono essere considerati bio-fertilizzanti hanno come caratteristiche l’attitudine a colonizzare le superfici radicali e la competizione con altri microrganismi per sopravvivere e moltiplicarsi. La loro azione si manifesta nel rendere più accessibili alla radice gli elementi nutritivi, nello stimolare la pianta con fitormoni e fitostimolatori, nell’abbassare i livelli di sostanze organiche contaminanti, nel controllare lo sviluppo di malattie con la loro possibile capacità antifungina e antibatterica. Oltre alla ben nota capacità di alcuni di loro di fissare l’azoto atmosferico, sono disponibili dati che dimostrano i benefici apportati alla capacità di sviluppo delle piante coltivate (Zandi e Basu 2016).

Il terreno agrario è la sede principale dove si sviluppano rapporti allelopatici tra gli organismi presenti. L’allelopatia dipende da interazioni biochimiche tra specie diverse che risulta dal rilascio nel terreno di sostanze chimiche. Include le interazioni tra piante, microbi, insetti e animali superiori mediate chimicamente per volatilizzazione, percolamento da organi superiori della pianta, decomposizione del materiale vegetale, essudazione dalla radice. I composti allelochimici derivano da 4 precursori: acetil-coenzima A, acido mevalonico, acido scichimico, deossi-xilulosio fosfato. Anche ormoni vegetali come gibberelline e etilene, acido salicilico sono considerabili allelopatici. Decine di migliaia di composti allelopatici sono stati identificati (Cheng e Cheng 2015); includono: fenoli, lattoni, acidi grassi, quinoni, benzoli, flavonoidi, tannini, terpenoidi, amino acidi, alcaloidi e altri (Scavo 2018).

Evoluzione dei metodi di ricerca

Il “genome editing” continua ad avere impatti positivi sulla produzione agricola primaria (Quetier 2016). E’ già stato utilizzato in mais, riso, frumento, canna da zucchero, soia, patata, colza, pomodoro, camelina, pompelmo, arancio, cocomero, lino, cassava (Jaganathan et al. 2018; Zhang et al. 2017). Se le nucleasi utilizzate hanno provata efficienza, il trattamento di protoplasti permette di rigenerare popolazioni di piante che in proporzioni significative sono mutate al sito desiderato; in maggioranza queste piante non contengono DNA esogeno che è degradato prima della modifica del genoma ospite (Song et al. 2016). Il “genome editing” multiplo, o “multiplexing”, ha avuto successo in piante modello e in specie coltivate, anche poliploidi (Zhou et al. 2014). Una variante di “genome editing” non prevede costrutti di DNA (“DNA-free genome editing”) (Woo et al. 2015). Le applicazioni al miglioramento genetico della mutagenesi sito-specifica richiedono di individuare i geni responsabili, specialmente quelli che sottendono la variabilità genetica quantitativa (QTL). La genetica dei QTL, prima studiata con progenie bi-parentali, è stata sostituita dal mappaggio per associazione e lo “screening” per selezione. Questo si basa sulla constatazione che i loci genetici derivati da un intenso processo selettivo nel loro interno rivelano una diminuzione della diversità nucleotidica del DNA.

Le nuove agrotecniche sono essenzialmente basate su robotica, informatica a distanza e utilizzazione di sensori sensibili e miniaturizzati. L’agricoltura di precisione cattura e utilizza la variabilità entro campo dei fattori che influenzano la produzione. È particolarmente adatta per un’efficiente irrigazione, per ridurre gli usi degli agrofarmaci e per regolare la densità di semina. Richiede la disponibilità di metodi, tecnologie e attrezzature particolari. L’approccio è in “remote” con l’uso di sensori dello stato della vegetazione e sistemi di guida dei mezzi agricoli basati su GPS. I sensori sono dipendenti da satelliti, velivoli o piattaforme a terra.

Nella maiscoltura degli Stati Uniti i trattori con guida in “remote” sono aumentati dal 5% dall’anno 2000 al 45% del 2010 (Oecd 2016). Anche i droni, noti come “Unmanned Aerial Vehicles (UAV) o “Remotely Piloted Aircraft” (RPAS), si prestano bene all’agricoltura di precisione. Permettono le ispezioni di aree agricole anche ridotte se dotati di adatti micro-sensori. Il posizionamento di un veicolo via GPS è essenziale nell’agricoltura di precisione.

Infatti, permette di utilizzare le coordinate geografiche delle posizioni in campo con la precisione di pochi centimetri. Rende così facilmente praticabile la guida in “remote” dei veicoli agricoli.

Un’efficace pianificazione dell’agricoltura di precisione è influenzata dagli sviluppi della nano-tecnologia. Recenti sviluppi riguardano gli attributi di nano-fibre e nano-capsule per regolare l’espressione genica in planta; i fertilizzanti coperti da nano-membrane o da nano-emulsioni che rilasciano lentamente gli elementi nutritivi; nano-sensori accoppiati a bio-recettori che possono monitorare i livelli di urea, glucosio, agrofarmaci e altre molecole, così come misurare umidità e temperatura del suolo (Sekhon 2014).

Sistemi agrocolturali

La riconsiderazione dell’ecosistema agricolo fa spesso riferimento a una “agrobiodiversità funzionale” (Costanzo e Bàrberi 2013), centrale al miglioramento degli agrosistemi, ma che necessita ancora di studi più approfonditi. Il concetto che illustra il tema è simile a quello di “Conservation Biological Control”, e cioè la ricomposizione di habitat o condizioni che permettono la presenza di agenti attivi nel controllo biologico di malattie e patogeni (Begg et al. 2017).

Nello scorso secolo la ricerca agricola ha sviluppato una moltitudine di innovazioni a favore dell’aumento della produzione per unità di terra coltivata (il caso del mais in USA è presentato in figura 3).

Le soluzioni agrotecniche che venivano proposte, almeno nel periodo 1950-1975, erano quasi automaticamente adottate come suggerito dai tecnici (Pretty 1995). Dominavano le proposte sviluppate dal miglioramento genetico di piante e animali. Attorno al 1990 si cominciarono a notare danni da eccesso di sviluppo tecnologico ed emerse la convinzione che fosse necessario un approccio ai problemi agricoli meno influenzato dal riduzionismo di singole discipline (Funtowicz e Ravetz 1993). La nuova visione si concretò nella ricerca di nuovi sistemi agricoli.

I sistemi agricoli possono essere allineati lungo un continuum a seconda del loro allontanamento sempre più radicale da quelli in atto. L’”Integrated Pest Management” (IPM) è un approccio utilizzato per combattere i parassiti delle piante usando tutti i metodi disponibili, ma minimizzando i trattamenti chimici. L’approccio è, al momento, accettato e incorporato nelle politiche e regolamentazioni dell’Ue e di altri Stati. Difetta della carenza di dati scientifici sufficienti per definire modi, specie, ambienti d’uso e risultati ottenibili.
Un avvicinamento più deciso verso la considerazione dell’agroecologia (Méndez V. et al. 2019) come necessità di base per la gestione degli ecosistemi è l’agricoltura biologica. Considera molti dei canoni del passato che si vorrebbero reintrodurre in agricoltura, ma la sua adozione è anche contestata: la conversione al 100% all’agricoltura biologica occuperebbe, infatti, superfici più estese con conseguente necessità di sfruttamento di terreni non vocati all’agricoltura.

Gli agricoltori biologici si devono confrontare con problemi specifici: difficoltà nel controllo delle infestanti, contenimento delle infezioni parassitiche, gestione del suolo e del bisogno di elementi nutritivi, necessità di varietà adatte a livelli bassi di nutrienti minerali (Reganold e Wachter 2016). Come tutti i sistemi agrari, anche l’agricoltura biologica dovrebbe essere influenzata più dalla scienza che dalla tradizione: è per questo prioritario che si apra con convinzione all’innovazione (Forster 2013).

Ai sistemi agroforestali viene data particolare attenzione negli ambienti tropicali perché ritenuti più sostenibili. Il sistema agroforestale è infatti particolarmente adatto all’uso agricolo integrato delle aree marginali. Gli alberi possono essere migliorati per produttività, contestualmente influenzando le caratteristiche del terreno, il microclima, l’idrologia e altre componenti biologiche (Farrell e Altieri 2018).

Le piante perenni, specialmente quelle al momento annuali e di grande utilizzo, se sviluppate, avrebbero la potenzialità di modificare radicalmente gli attuali sistemi agricoli. Il “sistema agricolo naturale”, come già ricordato, ha come obiettivo principale lo sviluppo di una “prateria coltivabile” (Cui et al. 2018).

Il futuro delle produzioni primarie

La descrizione dei rapporti agricoltura-ambiente si basa su alcuni indici, i più importanti dei quali sono noti e spesso citati. Sul pianeta, oltre ai pascoli e alle foreste coltivate, circa 1,5 miliardi di ettari vengono utilizzati come terre arative. Sarebbero disponibili circa 2,7 miliardi di ha di terre vergini coltivabili, purtroppo però riguardano terreni in condizioni ecologiche marginali. Le perdite di produzione, dovute a patogeni, animali e infestanti, possono raggiungere il 20-40% di tutto il raccolto potenziale. Il consumo di azoto è aumentato da 11 a 104 milioni di tonnellate nel periodo 1961-2006. I maggiori bacini idrici del mondo denunciano scarsità di acqua come risultato dell’uso della risorsa da parte dell’agricoltura, dell’industria e della comunità civile (Fao, 2017). Nel 2050 il sistema agricolo mondiale dovrà produrre il 70% in più di cibo (McKersie 2015; Smith e Gregory 2013). Il ricorso all’azoto di sintesi dovrà trovare limiti all’aumento, sia per ragioni di costo, sia a causa degli effetti eutrofizzanti sui biotopi umidi e per l’immissione nell’atmosfera di ammoniaca. L’irrigazione si è già estesa su quasi tutte le aree dove è possibile praticarla. Le produzioni medie di mais dei Paesi con valori elevati (7,5 t/ha) differiscono significativamente da quelle delle agricolture meno efficienti (2,8 t/ha) ed entro il 2050 parte di questo gap potrebbe essere ridotto. Il miglioramento genetico dei più importanti cereali può indurre incrementi produttivi dell’1,6% per anno, che però non raggiungono il 2,4% necessario per pareggiare, entro il 2050, il consumo di cibo con la sua produzione. Se nel 2050 le produzioni dovessero rimanere simili a quelle del 2025, sarebbe necessario espandere i suoli arati di almeno 108 milioni di ettari (Ray et al. 2013).

In generale, è verosimile che tra il 2010 e il 2050 l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente possa aumentare del 50-90% e porre severi limiti all’abitabilità del pianeta (Springmann et al. 2018b).

Due categorie di pensiero si sono poste il problema di come affrontare, in un’ottica agricola, il futuro del pianeta (Mann 2018). Secondo William Vogt, il più noto rappresentante dei profeti dell’”Ambientalismo apocalittico”, la soluzione è il ritorno a epoche preindustriali, una soluzione inattuabile a causa dell’impossibilità di gestire la forza lavoro: i nipoti di quelli che hanno abbandonato l’agricoltura sono inurbati e non hanno nessun desiderio di ritornare alla terra e alle sue fatiche; Vogt è probabilmente corretto quando ritiene che se non si limita il numero degli abitanti della terra e il livello dei consumi, gli ecosistemi naturali potrebbero essere tutti distrutti. Ci si dovrebbe, cioè, alimentare a un livello trofico più basso, essenzialmente limitare i cibi animali. La critica a Vogt è che questa soluzione porta alla povertà, a un mondo in miseria costantemente costretto “a ridurre”.

Norman Borlaug, nato dodici anni dopo Vogt, premio Nobel per la pace e inventore della “Rivoluzione Verde”, era fautore del “tecno-ottimismo”, secondo il quale solo la tecnologia sviluppata su basi scientifiche ha la capacità di risolvere i problemi dell’umanità. Purtroppo “queste due concezioni sono come linee rette che si trovano su piani diversi e non s’incontreranno mai” (Mann, 2018). Gli Autori di questa nota sono dei tecno-ottimisti, convinti però che i sistemi agricoli attuali sono suscettibili di significativi miglioramenti nei contenuti di agroecologia. Tuttavia, si deve anche riconoscere che la necessità futura di produrre ancora più cibo richiede che l’agricoltura rimanga altamente intensiva, un punto a favore dei maghi. Ciononostante, la condizione in cui viviamo, che genera preoccupazioni per il futuro, dovrebbe concretarsi in una transizione a sistemi agricoli diversi dagli attuali per organizzazione agricola e sociale.

Il termine transizione indica la riconfigurazione a livello aziendale dei sistemi e dei sottosistemi agricoli. È evidente che, nella transizione alla sostenibilità, gli obiettivi generali, come la preservazione della biodiversità o l’uso contenuto di agrochimici, ricevono sempre un largo consenso. Più discusso è se la transizione alla sostenibilità debba focalizzarsi solo su approcci tecnologici (per esempio OGM, nano-tecnologia, agricoltura di precisione) o se legarsi alle aspettative del consumatore, ai diritti di accedere alle risorse, alle strutture istituzionali o a prospettive culturali (Darnhofer 2015). La multidisciplinarietà è ritenuta necessaria per precisare meglio il concetto di agro-biodiversità come intersezione tra biodiversità e agricoltura, coinvolgendo agronomia, antropologia, ecologia, botanica e genetica, allo scopo di introdurre sistemi agro-ecologici che promuovono uno sviluppo agricolo sostenibile. I cambiamenti dovrebbero risultare da un’ibridazione tra approcci “bottom-up” (derivabili da esempi virtuosi) e “top-down” (sostenuti da politiche adatte). I primi sarebbero riconducibili a nicchie agro-ecologiche che sviluppano localmente esperimenti di intensificazione ecologica; gli altri introducono nuovi regimi tecnici motivati da ragioni sociali (Tittonell 2016).

In uno dei precedenti paragrafi di questa nota si è cercato di delineare quanto la ricerca avanzata potrebbe fare per preparare le piante agrarie a futuri sistemi agricoli sostenibili. È tuttavia evidente che il processo di avvicinamento alla sostenibilità nutrito dalla tecnologia richiede interventi normativi a sostegno delle soluzioni da adottare.

Una sintesi di quanto la politica può organizzare e realizzare per dare concretezza al concetto di sostenibilità futura della produzione agricola è presente nelle trattazioni Oecd (2016) e di Tyczewska et al. (2018). La pianificazione politica per sé non è complessa o difficile da comporre. Infatti, sulla base dei dati esistenti e delle tendenze osservate per parametri significativi che misurano l’effetto dei fattori di produzione agricola, è relativamente facile precisare, nei termini generici propri della politica, quali sono le linee di intervento da proporre. Molto più complesso è portare a fruizione le decisioni delineate, dove esse sono mediate da azioni di ricerca, seguite da ipotesi di sviluppo e da efficaci forme di “extension”. Un elenco di linee guida per l’intensificazione sostenibile della produzione agricola è presente in Tyczewska et al. (2018). Gli strumenti di economia politica usabili per gestire futuri agro-ecosistemi sono: contributo pubblico (per misure ambientali; condizionalità; supporto alla disseminazione dell’innovazione); tassazione (su pesticidi e energia); obbligazioni o proibizioni; quote.

Risulta complesso specificare come sviluppare interventi scientifici a supporto di politiche anche precise. La più seria azione da intraprendere è di produrre ancora innovazione sostenuta dalle scienze agrarie, biologiche e mediche. Un piano che combini approcci genetici e agronomici ha alte probabilità di successo se combina le competenze della rivoluzione verde e della biotecnologia, OGM inclusi. Il piano richiederebbe interdisciplinarietà, integrando approcci di biotecnologia vegetale, genetica, fisiologia, miglioramento genetico, agronomia e studio dei sistemi agricoli (McKersie 2015). I nuovi sistemi agricoli richiederebbero, come tratteggiato in questa nota, il deciso intervento sui genomi delle piante agrarie. Metodi e procedure biotecnologiche adatti allo scopo sono disponibili ed efficaci.

Nei paragrafi precedenti sono state prodotte evidenze importanti di quanto la scienza può contribuire. Tutto queste indicazioni, tuttavia, sono largamente insufficienti. Infatti, si è frequentemente reiterato che temi come IPM (“Integrated Pest Managment”), agricoltura biologica, MLP (“prospettive multi-livello”), agroecologia, agro-biodiversità, riconfigurazione dei sistemi agricoli, metriche per la sostenibilità, biopesticidi, modellistica dei sistemi agrari, droni, “conservation agriculture”, “agroforestry”, “integrated crop-livestock-energy systems” (è un elenco incompleto) non hanno ancora un fondamento scientifico certo dei contenuti che vogliono rappresentare, dei metodi che propongono e del loro ruolo applicativo. Sarebbe assolutamente necessario, in questa situazione, potenziare la ricerca di base per coprire lo iato conoscitivo necessario a sviluppare, con confidenza, la tecnologia necessaria per affrontare con meno ansia il futuro. È una conclusione quasi paradossale: nel nome della multidisciplinarietà apparente dei problemi da affrontare, si propone che gli ambiti di conoscenza citati vengano in primis singolarmente sviluppati come vere discipline scientifiche.

Quello che è certo è che “we still lack a robust theoretical framework to support ecological intensification of food production systems and to translate knowledge and understanding into operational management strategies”. La frase è ripresa da una rassegna firmata anche da uno degli editori di Sustainable Agriculture (Gaba et al. 2018).

Riassetto dei sistemi agricoli, priorità ad ecologia e sostenibilità - Ultima modifica: 2019-12-05T10:37:41+01:00 da Lucia Berti

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome