L’albicocco, “fratello minore” del pesco, non finisce di stupire: l’aumento produttivo di questi ultimi lustri ha portato la produzione nazionale a superare le 230.000 t (dalle 150.000 t di pochi anni fa), in parte compensando il notevole decremento del pesco, che da una media annua di oltre 1,5 milioni di t si è abbassato a poco più di un milione in questi ultimi anni. Certamente non è pensabile che l’albicocco possa sostituire il pesco, anche se tale specie sembra ormai avviata in una spirale negativa di cui si fatica a vedere il fondo e per la quale sarà necessaria una profonda trasformazione, sia come approccio imprenditoriale, sia per l’immagine del prodotto, tutta da riguadagnare.
I punti di forza
I punti di forza dell’albicocco degli ultimi anni sono da ricercare in primo luogo nel profondo rinnovamento varietale, oltre che nell’ampliamento del calendario di maturazione, che ormai copre tranquillamente cinque mesi, da inizio maggio a fine agosto–primi di settembre, senza considerare la coltura protetta del Sud, grazie alla quale si riesce a guadagnare un altro mese. Nonostante la costante riduzione del numero di breeder che si dedicano a questa specie (il miglioramento varietale è diventato ormai un "affaire" europeo; la Cina non si è ancora affacciata su questo versante, mentre i più grossi produttori mondiali, Turchia in primis, sono appena all’inizio di questo impegnativo lavoro), sono oggi disponibili molte cultivar che si differenziano per tutti i caratteri in grado di soddisfare le esigenze dei principali attori della filiera, dal produttore al consumatore finale.
Abbiamo così cultivar affidabili dal punto di vista produttivo, sia perché auto-fertili, sia perché a fioritura medio-tardiva; albicocche con polpa molto soda, con ottima "tenuta" sull’albero e sullo scaffale, che possono adattarsi anche alla conservazione frigorifera; albicocche visivamente attraenti, anche con buccia completamente rossa e brillante, con aromi e sapori (grazie anche a rapporti zuccheri e acidi molti differenziati) che possono soddisfare tutti i palati; albicocche adatte alla produzione di succhi, per la quale l’Italia è leader mondiale.
Il rinnovamento varietale ha consentito anche di ottenere cultivar con comportamenti vegeto-produttivi adatti alle varie zone albicocchicole italiane, che si sono comunque estese al di fuori degli areali tradizionali (Campania ed Emilia-Romagna), affermandosi oggi anche in Basilicata e Puglia, oltre che in Sicilia. Tale fenomeno è stato certamente facilitato dalla diffusione di cultivar auto-compatibili e con ritmi di differenziazione fiorale e soddisfacimento del fabbisogno freddo specifici per i vari ambienti. La tecnica colturale è stata inoltre rivoluzionata, prendendo a prestito le gestioni agronomiche affinate per molti anni nel pesco, dalla nutrizione minerale, alle forme di allevamento, alle tecniche di potatura adattate alle caratteristiche varietali, che tengono conto degli specifici habitus di vegetazione e fruttificazione, molto più vari rispetto al pesco. Dal punto di vista fitopatologico occorre segnalare che è in continuo aumento la diffusione di cultivar resistenti a virus della sharka, unica strategia per difendere il frutteto da questa temibile patologia.
Ancora molte sfide da vincere
Verrebbe allora da pensare che son tutte rose e fiori, e che questa specie potrebbe essere veramente destinata, nel breve periodo, a sostituire il pesco nei distretti italiani di coltivazione delle drupacee e la pesca sulle tavole degli italiani. Ma purtroppo non è così. L’albicocco rappresenta un chiaro esempio di come, pur a fronte di notevoli miglioramenti sia nel settore varietale, sia in quello della tecnica colturale, questi, di per sé, non risolvono magicamente tutte le sfide che il frutticoltore deve affrontare. È pur vero che in Italia la coltura negli ultimi 15-20 anni ha subito una profonda trasformazione, come forse nessun’altro fruttifero, con soddisfazione di tutti gli attori della filiera, fino al consumatore: ma non tutti i problemi sono risolti, anzi.
Ci siamo affermati come il quinto Paese produttore al mondo, primi in Europa, ma siamo ancora terzi come esportazione: come mai Francia e Spagna esportano più di noi, che pure abbiamo canali preferenziali, per l’albicocca, in Austria e Germania? Abbiamo saputo trasferire all’albicoccheto le tecniche di avanguardia messe a punto per il pescheto, ma come mai ci sono rese elevate con frutti che perdono qualità rispetto a quelli prodotti con tecniche meno intensive? Sono oggi disponibili varietà esteticamente molto attraenti, ma perché il mercato le rifiuta? Siamo in grado di coltivare albicocche in areali molto più estesi, e con un calendario raddoppiato rispetto al recente passato, ma come mai il risultato produttivo non è sempre soddisfacente e i prezzi sono spesso deludenti, anche a fronte di un periodo di commercializzazione più ampio?
Non commettere gli stessi errori fatti col pesco
È vero che la coltura ha fatto passi da giganti, ma occorre essere molto attenti a non compiere gli stessi errori che hanno portato alla crisi strutturale e di mercato che ha colpito così gravemente il pesco. L’albicocco ha delle specificità intrinseche che i pur grandi progressi ottenuti non ci consentono di ignorare. Se si spingono oltre certi limiti gli input agronomici, la qualità del frutto crolla e aumenta la suscettibilità alle batteriosi o a alle malattie fungine. Se non si sceglie la varietà adatta a quel certo clima, la differenziazione a fiore può non avvenire correttamente oppure le gemme a fiore essere facilmente danneggiate da sbalzi termici. Se si valuta solo l’aspetto estetico, si rischia di pretendere che il consumatore si accontenti di mangiare…con gli occhi, senza pensare agli inevitabili contraccolpi nei consumi. Se si pretende di produrre pur ottime varietà, senza pensare alle necessarie strategie commerciali, si può rischiare di dover vendere sottocosto.
Non è una coltura per tutti
In conclusione, l’albicocco si conferma come la realtà forse più interessante nel panorama frutticolo italiano, con grandi potenzialità ancora tutte da sviluppare, dal miglioramento varietale (che ha ancora tante frecce nel suo arco), alla destinazione finale, non solo per il fresco, settore ancora molto vivo, ma anche per la trasformazione (e non pensiamo solo alle puree, il mercato dell’essiccato cerca un’alternativa alle insipide albicocche turche). Occorre però che ogni attore della filiera faccia sempre meglio il proprio mestiere: l’albicocco non è una coltura per tutti, non ci si improvvisa albicocchicoltori, dalla scelta della varietà (non accontentarsi del "sentito dire"), alla messa a punto della gestione del frutteto (che non è il pesco). è quindi il tempo di abbandonare l’emozione suscitata dai positivi risultati degli anni recenti e tornare ai fondamentali: occorre avere l’umiltà di vedere l'albicocco come una coltura nuova (e di fatto lo è, se solo facciamo il confronto con l’ultimo scorcio del secolo scorso), quasi sconosciuta, così da poter risolvere i pur tanti problemi ancora presenti e poter offrire al consumatore quello che lui si aspetta mangiando un’albicocca!