Tra le drupacee, l’albicocco è l’unica specie in crescita. L’Italia, tra i Paesi che destinano la loro produzione al consumo fresco, è leader europeo per superfici e produzioni. Difatti, la superficie italiana coltivata ad albicocco si attesta intorno ai 18.700 ha (Istat, 2015), concentrati principalmente in Emilia-Romagna, Campania e Basilicata, le quali contribuiscono con circa 13.000 ha. Se la Campania presenta ancora areali di coltivazione e standard varietali tradizionali (area vesuviana), le altre regioni si sono principalmente orientate verso nuove varietà che rispondono meglio alle esigenze di mercato. Anche la Puglia sta aumentando le produzioni, collocandosi oggi al 4° posto con circa 1200 ha.
Un dato positivo è quello dell’uso industriale e non solo fresco dell’albicocche; infatti, circa il 40% della produzione nazionale è destinata alla trasformazione conserviera che sempre di più cerca prodotto di qualità, tanto meglio se a residuo zero e/o biologico. Per quanto riguarda il fresco, il consumatore oggi preferisce albicocche attraenti, di buon sapore, con buona consistenza e prolungata “shelf life”. A questo bisogna aggiungere le esigenze delle catene dei grandi distributori (GDO), snodo fondamentale per la commercializzazione del fresco, che richiede garanzie igieniche, rintracciabilità, conservabilità, certificazioni di prodotto, ecc. Tutto ciò ha richiesto un nuovo approccio per le imprese agricole, che ha determinato un adattamento delle scelte di campo alle esigenze dei nuovi interlocutori commerciali.
Problemi di adattabilità
In tal senso, sebbene sia in corso un profondo rinnovamento, stanno emergendo alcune problematiche di carattere agronomico: l’adattamento ambientale delle nuove varietà; l’autoincompatibilità di alcune di queste; il fabbisogno in freddo e caldo delle diverse cultivar; la distintività e l’apprezzamento dei caratteri dei frutti; la difesa fitosanitaria legata alla Sharka.
Il crescente interesse per l’albicocco da tempo attrae l’attenzione dei breeder. Bisogna dire che molti progetti hanno prediletto le condizioni ambientali tipiche degli ambienti settentrionali e solo negli ultimi anni, grazie soprattutto a costitutori spagnoli e francesi, sono state licenziate varietà adatte anche agli ambienti meridionali.
Il lavoro di miglioramento genetico ha prodotto tante nuove varietà con aspetti comuni, come i caratteri innovativi del frutto, esterni ed interni, e la più ampia epoca di maturazione, per assicurare un calendario di raccolta e commercializzazione prolungato, oggi passato da 45 a 120 giorni. L’esigenza di produrre per il mercato fresco ha portato all’introduzione di nuove varietà sulle quali le informazioni circa la tecnica di coltivazione sono ancora in fase di valutazione; molte di esse presentano un habitus vegeto-produttivo differente rispetto alle varietà tradizionali e quindi necessitano di appropriate valutazioni per ottimizzarne la gestione.
L’introduzione dei genotipi molto sovraccolorati ha evidenziato la problematica della corretta determinazione dell’epoca di raccolta, considerando che in molti casi, allettati dalle buone quotazioni di mercato, si tende ad anticipare la raccolta quando i frutti sono appena invaiati, ma assai poco gustosi. In questo modo si penalizzano numerose varietà che vengono mal giudicate per insufficienti qualità organolettiche, non considerando che il colore di fondo della buccia dell’albicocco a maturazione è giallo-arancio e con diverse sfumature di verde.
La conoscenza del fabbisogno in freddo e caldo e la biologia fiorale (autocompatibilità, costituiscono invece la base per evitare insuccessi produttivi, sempre possibili per una specie così poco plastica come l’albicocco. Questo ha portato finora a diversi errori di valutazione e ad introduzioni azzardate, cosa abbastanza tipica per questa specie, ma che si sono acuiti in maniera notevole nell’ultimo decennio.
La delimitazione di aree omogenee rispetto alle ore di freddo e di caldo da parte dei centri di sperimentazione, oltre alla determinazione del fabbisogno in freddo delle singole varietà e all’introduzione degli impollinatori più idonei per quelle autoincompatibili, costituirebbe un valido supporto alle scelte del frutticoltore che i costitutori dovrebbero assicurare. È intuibile che assemblare tutti questi caratteri è difficile.
Cosa fa il miglioramento genetico?
Passando in rassegna le più recenti innovazioni, la spagnola PSB Produccion Vegetal della famiglia Buffat (Murcia), ha selezionato una serie di varietà “low chilling” che scontano in alcuni casi la totale o parziale autoincompatiblità. Tra le novità, Flopria è quella che ha dato migliori risultati negli ambienti meridionali, mentre per le più recenti introduzioni è ancora presto per dare un giudizio completo. Interessanti per l’epoca di maturazione precocissima sono Mikado, Mogador e Colorado, fermo restando che per il loro basso fabbisogno in freddo si adattano meglio alle condizioni del Sud Italia.
IPS (Iternational Plant Selection) ha introdotto diverse cultivar nella fase sia precoce che tardiva del calendario di raccolta, prediligendo alcuni caratteri biologici come l’autofertilità e gli aspetti pomologici del frutto. Solo negli ultimi anni ha conseguito varietà a basso e/o ridotto fabbisogno in freddo, aspetto che ha finora limitato le performance produttive delle varietà selezionate negli anni precedenti. A questo gruppo, già valutate positivamente, appartengono Faralia e Farbaly che si collocano in epoca tardiva. Sono comunque numerose le varietà in corso di valutazione che consentirebbero di ampliare ulteriormente il calendario di maturazione, fino a settembre inoltrato.
Interessante anche la francese Orange Rubis-Couloumine, edita da Europepiniers, che si è distinta per la produttività, aspetto e sapore del frutto, anche se ha una ridotta “shelf-life”. Le varietà francesi di Escande, in conseguenza dell’autoincompatibilità, hanno offerto risultati produttivi spesso insufficienti. Le ultime introduzioni, come Banzai, hanno invece superato questo aspetto in quanto autofertili, sebbene necessitino di ulteriori approfondimenti.
Il breeding italiano, guidato dal Prof. Daniele Bassi (Università di Milano e Bologna) con il supporto del CRPV (Fc), ha prodotto finora varietà idonee soprattutto agli ambienti settentrionali e abbastanza tolleranti a Sharka. Una di queste è la precoce Ninfa, che si è affermata negli scorsi anni al Sud per l’alta produttività. Il suo frutto, però, ha uno scarso “appeal” per via della ridotta pezzatura. Un’altra varietà precoce selezionata dallo stesso Bassi è Bora, che produce frutti di grossa pezzatura e con colore aranciato intenso, polpa di buona consistenza e dolce. Purtroppo questa varietà sta offrendo risultati incostanti, soprattutto negli ambienti colturali del Centro-Nord.
Per le varietà resistenti a PPV, nelle aree in cui è diffuso il virus della Sharka, un aiuto potrà venire dalla disponibilità di nuove varietà che mostrino resistenza e/o tolleranza a questo virus, su cui stanno lavorando numerosi genetisti a livello internazionale. È bene si sappia che un grande progetto collaborativo, che vede coinvolti sia il Nord, sia il Sud, ruota intorno a questo obiettivo. Bisogna però essere consapevoli che la disponibilità di germoplasma resistente non è garanzia di successo agronomico e commerciale, in quanto come per tutte le varietà è fondamentale una sperimentazione in campi di confronto varietale per verificare l’adattabilità e il gradimento da parte del mercato.
Negli ultimi anni sono state introdotte diverse varietà con resistenza a PPV; quelle selezionate in Spagna dal Cebas-Csic di Murcia, come Mirlo Blanco, Mirlo Rojo e Mirlo Naranja, presentano autocompatibilità e maturazione precoce, quasi tutte nel mese di maggio. Attualmente non si hanno dati sufficienti sul comportamento negli ambienti dell’Italia meridionale. Tuttavia, sembrerebbero sensibili al “cracking”, fattore che potrebbe pregiudicarne la produzione in annate piovose in prossimità della raccolta.
Fra le altre varietà non soggette a Sharka si citano Mioxent, Dama Vermella, Dama Taronja, Dama Lucentus, sempre di origine spagnola costituite dall’IVIA di Valencia, oppure Aramis® Shamade, costituita in Francia dall’INRA. Di queste non si conosce alcun dato produttivo negli ambienti di coltivazione nostrani; sarebbe auspicabile che le nostre istituzioni, nazionali e regionali, finanziassero attività di ricerca e sperimentazione volte all’ottenimento di varietà tolleranti, ma di eccellente qualità, in modo da offrire ai frutticoltori italiani genotipi selezionati nei nostri ambienti colturali.
Per l’albicocco, l’invito è quello di pianificare e programmare gli investimenti ben consapevoli dei risultati che si intendono raggiungere; pur mettendoci un giusto livello di rischio imprenditoriale, prima della scelta della varietà da adottare è buona norma valutare tutte le variabili ambientali e biologiche che potrebbero influire sul risultato finale.n