L’actinidia riveste un ruolo minoritario nel quadro delle produzioni frutticole mondiali, con un peso pari all’1,3% delle superfici investite a frutta fresca non tropicale, escluso agrumi, e all’1,8% della corrispondente produzione (fonte Fao, 2016). Benché i numeri siano tuttora contenuti, va peraltro sottolineato come il trend di crescita sia stato particolarmente rilevante negli ultimi anni, nonostante l’effetto frenante dovuto all’insorgere di problematiche di natura fitopatologica. In particolare, nel decennio 2007-2016 le superfici coltivate sono passate da 156.000 a 257.000 ettari, segnando dunque un aumento del 77%. Buona parte della crescita è dovuta alla Cina, peraltro poco presente sui mercati internazionali, ma di gran lunga primo produttore mondiale, con oltre il 70% degli investimenti complessivi. Anche nel resto del mondo, comunque, la coltivazione ha registrato un aumento del 22%, superando quota 80.000 ettari. L’offerta mondiale, nel medesimo periodo, è passata da 2,5 a 4,2 milioni di tonnellate, di cui circa 1,8 milioni realizzate al di fuori della Cina.
Benché la crescita abbia interessato diversi areali, la produzione di actinidia permane fortemente concentrata in pochi Paesi: escludendo la Cina, si contano poco più di 20 produttori e i primi 5 realizzano più dell’85% dell’offerta mondiale.
L’Unione Europea è il principale bacino dell’emisfero settentrionale, con un potenziale produttivo medio pari a circa 700.000 t, ma capace anche di punte massime di 850.000 t, come avvenuto nella campagna 2015-’16. L’Italia è leader produttivo dell’area, nonostante due campagne consecutive fortemente al di sotto del proprio potenziale, in particolare l’ultima, con meno di 400.000 t (Fig. 1). Si tratta, tuttavia, di una dinamica legata ad avversità, poiché le superfici investite sono in tendenziale espansione, soprattutto per le varietà a polpa gialla. In parallelo, è molto forte la crescita registrata in Grecia che, proprio nella campagna 2017-’18 ha raggiunto la quota record di 180.000 t. Nell’arco di un decennio, gli investimenti in questo Paese sono cresciuti del 78%. Rilevanti incrementi delle superfici coltivate si registrano anche in Portogallo e Spagna, ma i volumi di offerta permangono limitati.
Nell’emisfero meridionale i due Paesi di riferimento, Nuova Zelanda e Cile, evidenziano dinamiche opposte. In Nuova Zelanda, difatti, la coltura è in fase di netta ripresa dopo il crollo produttivo del 2013 dovuto alla PSA, superando le 500.000 t di offerta, di cui 170.000 di cultivar a polpa gialla, nel 2016. Al contrario, in Cile la coltivazione è in fase di stallo, denotando una certa perdita di interesse a favore di altre specie da frutto.
Il commercio internazionale
L’actinidia è tra le specie frutticole più attive in termini di flussi commerciali, con un tasso di crescita degli scambi tra i più elevati in assoluto. Nel 2016 il flusso di import/export a livello globale ha superato 1,6 milioni di t, segnando un aumento del 25% in cinque anni e del 47% in un decennio. Escludendo la Cina, per il momento poco presente sui mercati internazionali, quasi il 90% della produzione mondiale complessiva è oggetto di scambio.
Il 70% delle esportazioni sono alimentate da Nuova Zelanda, Italia e Cile. Dopo l’inevitabile flessione dovuta al consistente calo produttivo, la Nuova Zelanda ha ripreso saldamente il ruolo di leader, esportando oltre 580.000 t nel 2016. Il Cile mantiene volumi sostanzialmente stabili, anche se molto fluttuanti in virtù della disponibilità interna di prodotto.
Nell’emisfero settentrionale, invece, il ruolo di Paese guida dell’Italia è negli ultimi anni oggetto di una pressione considerevolmente crescente da parte della Grecia (Fig. 2). Le esportazioni elleniche, sospinte da una produzione interna in decisa crescita, hanno inoltre subito uno spostamento massivo dalla Russia, che assorbiva gran parte dei volumi, ai Paesi Ue. Nell’ultima campagna 2017-’18 è da segnalare altresì un marcato incremento dell’apprezzamento del prodotto greco, anche per effetto dei ridotti volumi di offerta sul mercato per la carenza di prodotto italiano. Il differenziale, tuttavia, permane marcato: a titolo di esempio, la media delle ultime sei campagne ha visto il prodotto italiano remunerato con quasi 0,50 Euro/kg in più.
Sempre con riferimento alle ultime sei campagne, nella tabella 1 sono evidenziati i flussi di esportazione italiani per destinazione: come rilevabile, anche se i Paesi Ue permangono prevalenti, le destinazioni extra-Ue pesano sempre più, 35% nelle ultime tre campagne, contro il 32% delle precedenti.
A sostenere il rilevante sviluppo del commercio mondiale, difatti, è soprattutto l’aumento del consumo in nuovi mercati: nel 2016 i Paesi importatori sono divenuti quasi 200. Il mercato dell’actinidia è in progressiva evoluzione, con una domanda che tende a deconcentrarsi, spostandosi verso nuove destinazioni. La Spagna ha assunto il ruolo di primo importatore mondiale, ma è soprattutto nei mercati dell’estremo oriente e dell’America che si registrano i maggiori tassi di crescita (Fig. 3).
Il quadro nazionale
La coltivazione dell’actinidia in Italia è tuttora in una fase piuttosto vivace, con importanti movimenti delle superfici investite nelle diverse aree produttive, per effetto, da un lato, dell’interesse che continua a destare in ambito frutticolo e, dall’altro, delle problematiche fitosanitarie con cui convivono da tempo diverse zone del Paese.
Secondo i dati Istat, nel quinquennio 2012-’16 le superfici investite sono aumentate di quasi 2.200 ettari, toccando i 26.500 ha totali, per poi perdere circa 100 ettari nel 2017. La superficie in produzione al 2017, confermata anche dalle stime di CSO Italy, è di 24.700 ha, con un aumento del 2% rispetto al 2016. Gli impianti sono ancora concentrati in prevalenza nel Lazio (30%) e nelle regioni settentrionali, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Lombardia e Friuli V.G. (54% nel complesso), ma la crescita più sostenuta negli ultimi anni si registra in Campania e, soprattutto, in Calabria che segna un aumento del 5% delle superfici in produzione nel 2017 a confronto con l’anno precedente.
Costi e redditività in Italia
Il costo medio di produzione dell’actinidia nei diversi areali di coltivazione è particolarmente eterogeneo, nonostante una base produttiva costituita ancora in larga maggioranza da una singola cultivar, Hayward, e la presenza quasi esclusiva di due sole forme di allevamento, pergoletta o tendone. Tali difformità si devono, oltre che alle tradizionali determinanti di variabilità, in primo luogo al costo della manodopera, alla diversa vocazionalità degli areali, nonché alle attenzioni richieste dalle problematiche fitopatologie peculiari di ciascuna zona produttiva.
A titolo di esempio, nella figura 4 sono evidenziati i costi medi di produzione rilevati per la cultivar Hayward, in funzione della resa produttiva, nei principali areali produttivi italiani: tali costi sono da intendersi come inclusivi sia degli oneri espliciti, riconducibili alle spese concretamente sostenute dall’impresa, sia degli oneri di natura implicita, dovuti agli apporti diretti di lavoro e di capitale da parte della stessa.
Considerando una resa produttiva media annua su base pluriennale che può variare da 23 t/ha in Piemonte (Cuneo), fino ad oltre 32 t/ha nel Lazio (provincia di Latina), il costo medio di produzione, conseguentemente, si colloca su livelli ben differenziati. In particolare, si parte da valori attorno a 0,40 €/kg per la Calabria (Reggio C.), per salire poco oltre 0,50 €/kg nel Lazio. In Emilia-Romagna (Ravenna) il costo medio sale ancora, fino a poco oltre 0,60 €/kg, mentre in Piemonte e Veneto (Verona) la spesa può arrivare a 0,65-0,70 €/kg. Trattandosi di una specie dai consistenti costi fissi, al variare della resa variano apprezzabilmente i costi unitari di produzione.
Circa i prezzi alla produzione, va considerato che il mercato dell’actinidia è molto globalizzato e, di conseguenza, risulta fortemente condizionato dalle dinamiche mondiali di produzione e di consumo. In Italia, essendo il Paese anche forte consumatore, è alta la sensibilità al livello di offerta interna, che si concretizza in prezzi alla produzione fortemente altalenanti. In particolare, negli ultimi dieci anni, con riferimento alle cultivar a polpa verde e al prodotto di prima categoria (calibro 65 g oltre), si rilevano quotazioni variabili da 0,40 a poco più di 0,70 €/kg e fino a circa 1 €/kg nell’ultima campagna, caratterizzata tuttavia da un livello produttivo molto basso (-16% rispetto al 2016, già piuttosto basso).
Dalla ponderazione dei prezzi annui con l’offerta complessiva nazionale, si può stimare un prezzo medio di poco inferiore a 0,60 €/kg. Se nel complesso la situazione economica appare sostenibile, è tuttavia evidenziabile una certa esposizione a cui sono sottoposti soprattutto i produttori delle aree settentrionali del Paese, le cui difficoltà appaiono chiaramente nelle annate di maggiore concorrenza o qualora gli impianti convivano con patologie tali da non renderli pienamente produttivi. Nelle aree centro-meridionali, invece, i margini di sostenibilità appaiono certamente più ampi, come peraltro confermato dalla crescente diffusione registrata nel corso degli ultimi anni.
Conclusioni
Come già sottolineato, la pressione competitiva è rapidamente aumentata nel corso del tempo per il ritorno su alti livelli produttivi della Nuova Zelanda e per l’espansione dell’offerta greca, peraltro estremamente competitiva in termini di costo, dal momento che la spesa media sostenuta dai produttori è calcolabile attorno a 0,35-0,38 €/kg, dunque ancora più bassa rispetto alla più competitiva regione italiana.
Dal momento che l’offerta appare in progressiva crescita è auspicabile che anche la domanda mondiale prosegua in tale direzione, per non ingolfare il mercato. Gli operatori commerciali dovranno, pertanto, attivare intensi sforzi sulla continua penetrazione di nuovi mercati, come ad esempio quelli del continente americano o dell’estremo oriente. Gli sforzi vanno, inoltre, integrati da altrettanto impegno nella promozione del consumo nei nuovi “mercati target”, dove questo frutto non è ancora ben conosciuto. In parallelo, occorre prestare la massima attenzione alla valorizzazione qualitativa delle produzioni per evitare che queste siano associate a semplici “commodities” indifferenziate destinate a competere solamente in termini di prezzo.
In questa stessa ottica, grande interesse va certamente affidato alla proposta di nuove cultivar, riflettendo con cura sulle modalità di gestione più opportune. Va rilevato che è proprio alle nuove cultivar che si deve buona parte della progressiva crescita mondiale dei consumi e che le stesse evidenziano livelli di prezzo decisamente più alti e costanti rispetto alle varietà tradizionali, alla luce degli ampi spazi di mercato ancora presenti. A titolo di esempio, le cultivar a polpa gialla mantengono costantemente quotazioni stabili e premianti, superiori a 1 €/kg, risultando in questo caso determinante per la sostenibilità economica la sola adattabilità pedo-climatica ai territori di coltivazione.
Tornando sull’aspetto valorizzazione, è auspicabile il superamento della consuetudine di immettere sul mercato prodotto non sufficientemente maturo e, dunque, con caratteristiche qualitative scadenti per approfittare di momentanee elevate quotazioni. È evidente come questa strategia speculativa, ancora presente nonostante la presenza dell’organismo interprofessionale e delle sue direttive, sia il primo viatico verso una qualificazione medio-bassa del prodotto da commercializzare.
Infine, come per tutte le specie frutticole, non si può fare a meno di ricordare come la realizzazione di efficaci strategie di valorizzazione non possono avere pieno successo se non in presenza di una efficiente organizzazione di filiera, che permetta di affrontare il mercato nazionale e, soprattutto, quello internazionale con idonee masse di prodotto qualificato e standardizzato, così da permettere il sostegno degli ingenti investimenti richiesti per l’espansione dei consumi.
Programmazione, qualità e nuovi mercati, parole d’ordine per il futuro dell’actinidia
Grande dinamismo produttivo e commerciale, grandi aspettative, ma qualche difficoltà c’è, a cominciare dall’organizzazione dell’offerta, e dalla definizione di più alti standard qualitativi del prodotto per cercare nuovi spazi di mercato. Costi di produzione diversificati da 0,4 a 0,6 €/kg dal Centro Sud al Nord. Italia sempre protagonista.