In Italia il pistacchio (Pistacia vera) è la specie frutticola mediterranea meno considerata da ricercatori, frutticoltori e vivaisti. Eppure, ha sostenuto Antonio Monteforte, responsabile agronomico di Biovegetal srl di Modugno (Ba) ed esperto di pistacchio, al convegno “Frutta secca made in Italy: aspetti tecnici, criticità, prospettive di valorizzazione” di Termoli (Cb), la coltivazione specializzata del pistacchio appare praticabile sotto l’aspetto agronomico e conveniente per quello economico, e perciò da rivalutare.
«Il pistacchio è una specie non eccedentaria nell’Ue e in Italia, che ne importano quasi la totalità del fabbisogno domestico; l’offerta mondiale è dominata dal duopolio Iran-Usa ma la domanda globale è in crescita esponenziale, date le proprietà altamente nutraceutiche del frutto. Esistono quindi spazi di mercato. Inoltre il pistacchio è una specie xerofita, cioè si è adattata a vivere in ambienti caratterizzati da lunghi periodi di siccità o da clima arido o desertico e quindi ha bisogno di poca acqua; fra le specie da frutto è la più resistente alla salinità, seconda solo alla palma da datteri; è adatta, in quanto produttrice di frutta secca, alla raccolta meccanica; infine richiede bassi input energetici per l’espletamento del ciclo produttivo».
Tuttavia diversi problemi colturali rendono complicata la coltivazione del pistacchio, scoraggiando i produttori. Essi, però, ha rassicurato Monteforte, sono risolvibili con un’adeguata tecnica colturale.
L’importanza della tecnica colturale
«Il primo problema è la particolare biologia fiorale: il pistacchio è una specie dioica, cioè presenta fiori maschili e fiori femminili su piante diverse: occorre perciò inserire nell’impianto almeno il 10% di piante maschili per ottenere una buona produzione; inoltre fiori maschili e fiori femminili devono presentare contemporaneità di fioritura, altrimenti la fruttificazione può risentire dell’eventuale asincronia nella fioritura. Altri aspetti critici sono la facilità di aborto degli ovuli, la scalarità di maturazione, l’alternanza di produzione, l’abscissione dei frutti, che può pregiudicare una buona resa alla raccolta, l’eventuale difficile deiscenza dell’endocarpo. Tutti problemi comunque superabili con un’adeguata scelta varietale».
...e della varietà
Riguardo al panorama varietale del pistacchio, esso è costituito pressoché completamente dal germoplasma nativo dell’Iran e dei paesi mediterranei (Italia, con le varietà Bianca e Cerasola, Cipro, Grecia, Siria, Tunisia, Turchia) e da poche varietà selezionate in Usa e Australia.
«In Italia manca materiale vivaistico nazionale. Per poterne disporre abbiamo valutato gli effetti di diverse dosi di acido gibberellico sulla germinazione di semi di terebinto e di pistacchio della cultivar Akbari. Per il terebinto non si è avuta alcuna germinazione. Invece per il pistacchio il trattamento migliore è risultato quello con 250 ppm (67%), seguito dalla tesi di 125 ppm (63%), che non si differenzia significativamente dalla precedente. Le tesi a maggiore concentrazione, ossia a 500 e a 1.000 ppm, pur dando un risultato superiore al test, sembrano aver depresso la germinazione rispetto alle dosi inferiori».
Il pistacchio sconta infine, ha evidenziato Monteforte, la difficoltà di approccio degli agricoltori a una moderna gestione agronomica. «In alcuni paesi tale gestione è ancora tradizionale. Ad esempio in Iran, dove il pistacchio viene coltivato con forma di allevamento a cespuglio policaule e tutte le operazioni colturali, comprese la raccolta e la potatura, vengono eseguite manualmente. Il sesto di impianto adottato è a rettangolo, con distanze di 2 m x 8 m. L’irrigazione viene effettuata per scorrimento con acque a elevata conducibilità elettrica, cioè troppo saline. In alcuni areali iraniani, per la cattiva qualità dell’acqua di irrigazione e l’eccessiva evapotraspirazione, il pistacchio è una delle poche specie vegetali che riesce ad adattarsi. Invece gli Stati Uniti adottano la più moderna forma di allevamento ad alberello o monocaule, predisposta per la raccolta meccanica».
La realtà italiana
In Italia il pistacchio viene coltivato «quasi esclusivamente in Sicilia con una superficie di 3.300 ha e in particolare in due zone: la prima in ordine di importanza è costituita dai territori di Bronte e Adrano nel catanese (80% della superficie regionale), in prevalenza con pistacchieti “naturali”, costituiti da piante di terebinto nate spontaneamente su terreni lavici e accidentati e innestate sul posto, poco adattabili alle innovazioni tecniche e alla meccanizzazione delle operazioni colturali; la seconda nelle province di Agrigento, Caltanissetta ed Enna (rispettivamente 12%, 7% e 1%), dove i pistacchieti sono impiantati con sesti regolari e facilmente adattabili alle innovazioni, anche meccaniche. Moderni impianti intensivi, per alcune decine di ettari, vengono coltivati anche in Basilicata».
La pistacchicoltura italiana tradizionale, dove le piante hanno uno sviluppo molto lento, entrano in produzione dopo 15-20 anni dall’innesto e hanno produzioni alternanti e le operazioni colturali, la raccolta, con l’ausilio di reti e pertiche, e la smallatura sono effettuate ancora a mano, «non è economicamente sostenibile: i costi di produzione aumentati negli anni, l’alternanza di produzione, le rese unitarie non superiori ai 10 kg/pianta di prodotto privo di mallo e la diminuzione dei prezzi di vendita per la concorrenza delle produzioni estere, hanno reso la coltura antieconomica. Per la valorizzazione del pistacchio occorre puntare su impianti specializzato, possibilmente in irriguo, e sulla meccanizzazione delle operazioni colturali, nonché sulla costituzione di marchi di qualità che contraddistinguano le produzioni siciliane, lucane o di altre regioni».