Un’annata veramente difficile per i produttori di ciliegio della Campania, quella che si sta concludendo: le continue piogge del mese di maggio hanno causato ingenti danni alla produzione delle varietà più precoci, con perdite medie del 50% e punte del 90%. “Gli eccessi di acqua – ci dice Salvatore Nuzzo, che gestisce l’azienda frutticola della madre Enrichetta De Lucia a Teano – hanno accentuato il fenomeno del “craking”, tipico delle ciliegie, e la successiva insorgenza di fitopatie, in primis la monilia”.
Nell’azienda De Lucia si coltivano diverse varietà di ciliegio, con un calendario produttivo che va da inizio maggio a metà luglio. “Il ciliegio è una specie che può ancora dare buone soddisfazioni ai produttori campani – aggiunge Nuzzo – purché si effettui correttamente la potatura, finalizzata non solo a contenere le dimensioni delle piante, ma anche a consentire la produzione di frutti di calibri elevati”. Un altro aspetto tecnico da curare è la difesa della specie dalle eccessive piogge primaverili. “Per questo motivo – continua il frutticoltore – i produttori campani si devono attrezzare, come già si fa in altre realtà produttive italiane, per coprire gli impianti con specifici teli, idrorepellenti e traspiranti ed evitare danni come quelli subiti quest’anno. Tra l’altro, questa tecnica consente anche di ridurre i trattamenti con vantaggi altresì di tipo ambientale”.
Anche il rinnovo del parco varietale costituisce un fattore determinante per la razionalizzazione degli impianti. “La scelta della cultivar è fatta in funzione degli aspetti pedoclimatici e del mercato che si vuole servire. Ritengo particolarmente valide le cultivar del gruppo “Duroni”, che producono più tardivamente in coincidenza di una maggiore richiesta dei mercati della zona turistica campana e sono più facili da gestire in fase di raccolta in quanto è possibile anche effettuare un solo passaggio”.
Anche la scelta del portinnesto è determinante per ottenere produzioni di qualità e ridurre i costi di raccolta. “I portinnesti nanizzanti – precisa il nostro interlocutore – sono certamente validi, ma in qualche caso è necessario scegliere un portinnesto più vigoroso se si vuole ottenere una buona pezzatura dei frutti. Il Colt, anche se piuttosto pollonifero, è valido per alcune varietà meno vigorose, mentre il MaxMa 14 è più nanizzante e con il suo impiego le distanze sulla fila e tra le file si riducono a 4 metri. La forma di allevamento, oltre al classico vaso, può essere la palmetta, l’Y longitudinale o, con i portinnesti nanizzanti, l’asse colonnare con densità fino a 6.500 piante/ha”.
Le altre scelte colturali sono sempre finalizzate a migliorare la produzione dal punto di vista sia quantitativo, sia qualitativo. “La difesa dai parassiti è certamente importante e lo sono parimenti sia l’irrigazione, che va eseguita anche nella fase post-raccolta, sia la lavorazione del terreno, che andrebbe limitata ai primi anni passando successivamente alla semplice trinciatura dell’erba per non danneggiare l’importante capillizio radicale che il ciliegio sviluppa in superficie”.
Il rilancio della cerasicoltura campana passa, però, anche attraverso il miglioramento genetico di alcune importanti varietà locali, come ci ha riferito Vincenzo Abbate esperto della sezione di frutticoltura del Crea di Caserta. “La Campania ha oggi il potenziale per tornare a guidare la classifica delle regioni italiane produttrici di ciliegie. Il primato, detenuto fino al 1986 con ben 8.277 ettari investiti in questa coltura, è stato perso per via dell’elevato costo di raccolta, dovuto alla notevole altezza degli alberi”.
La ricerca si è posta l’obiettivo di aiutare i produttori di ciliegie campani, ancora poco recettivi ai cambiamenti. “Nei campi sperimentali del Crea di Caserta è in corso una ricerca su come migliorare le varietà locali con più elevato potenziale gradimento sul mercato mediante l’utilizzo di portinnesti meno vigorosi del franco (Prunus avium). Un’attività sperimentale che ha preso le mosse dall’esigenza di tutelare queste varietà, tutte a rischio di estinzione”. La Campania, con areali a vocazione cerasicola posti in zone di collina e montagna, potrebbe giovarsi di una tale eventuale ripresa produttiva in grado di contribuire al rilancio delle aree rurali interne della regione.
“Nella Comunità Montana del Monte Maggiore ed in alcune aree delle colline casertane la maggior parte delle ciliegie è destinata all’industria e la commercializzazione dei frutti comincia da fine aprile con la cultivar Santa Lucia e finisce a metà luglio con l’Imperiale – ha sottolineato Abbate. Fra queste due varietà ne maturano altre, quali Stoppa, Cannamela, Margarita e Margaritone, tutte varietà da industria insieme ad altre poco diffuse, ma non per questo meno importanti”. Queste cultivar storiche, in via di estinzione, sono ora conservate in un campo prova nel comune di Formicola (Caserta) avviato su iniziativa del Crea nel 2011.
Questa prova, che prevede un confronto fra dieci portinnesti diversi innestati con ciliegie dolci da industria locali, insieme ad un’altra sul ciliegio acido (amarene) innestato su nove portinnesti diversi, avviata da Abbate nel campo sperimentale di Francolise (Ce) potrebbe dare una nuova importanza a due colture, ciliegio dolce e acido da industria, che in passato hanno dato un notevole apporto all’economia di molti territori montani.
Il patrimonio varietale campano
Diverse tra le 50 varietà locali oggetto di studio risultano idonee a tornare sul mercato, dopo un programma di miglioramento genetico, volto all’ottimizzazione dell’altezza delle piante, da inserire in sistemi di allevamento moderni e di gestione più economica. Di questo variegato germoplasma fanno parte la varietà precoce Maiatica di San Potito Sannitico, Bertiello di Somma Vesuviana, Duroncella Nera, Spernocchia di Bracigliano, diffusa in provincia di Salerno e premiata nel 2011 come migliore ciliegia d’Italia, e Imperiale, diffusa in tutta la regione, ma che aveva un buon insediamento nell’areale del Monte Maggiore, in provincia di Caserta.
“La Campania ha potenzialità per riprendersi il primato produttivo nazionale se si va alla radice del problema” – ha precisato Abbate – “non bisogna far scomparire le cultivar locali, ma occorre anzi partire da queste per il miglioramento genetico, investendo per ampliare la coltivazione”. Il perché di questa affermazione è anche da ricercarsi nei non elevati rendimenti quali-quantitativi negli areali campani delle cultivar commerciali introdotte negli ultimi anni.