La peschicoltura italiana è in crisi ormai da diversi anni e le cause delle difficoltà del comparto sono state analizzate e discusse ampiamente e approfonditamente (Fideghelli, 2012, 2015; Palmieri e Pirazzoli, 2017; Sansavini 2016, 2017, 2018a, b; Scalise, 2018). Ciò che è più difficile prevedere è quando il ridimensionamento in atto finirà e potrà essere raggiunto un nuovo equilibrio tra produzione e mercato che consenta ai peschicoltori italiani di produrre ricavando il giusto guadagno.
Il contesto internazionale
Prima di entrare nel dettaglio della situazione italiana è interessante l’esame della tabella 1 nella quale sono riportate le variazioni produttive nell’ultimo decennio nei sei continenti di cui si dispone di dati ufficiali.
La produzione mondiale ha superato i 24 Ml di t, pari ad un incremento del 30,5% nell’ultimo decennio. L’Asia, che da sola produce il 70% di tutte le pesche e nettarine, ha aumentato la propria produzione di oltre il 57%; delle altre aree geografiche è in aumento solamente l’Africa (+10,7 %), il Sud America è stabile, l’Europa in calo (–3,2%), così come Nord America (– 26,6%) e Oceania (–41,5%). È significativo che i tre continenti con il maggiore reddito pro capite siano anche quelli la cui produzione è in calo, a significare che il consumo di pesche e nettarine, da alcuni anni, è correlato negativamente con l’aumento della capacità di acquisto dei consumatori che orientano le loro scelte verso un maggior numero di tipi di frutta. Negli stessi Paesi, infatti, è in continuo aumento sia il consumo di altra frutta temperata (es. albicocche, ciliegie, susine, uva da tavola, meloni, angurie, piccoli frutti), sia di frutta tropicale (banane, ananas, mango, avocado, papaya) (Fideghelli, 2012).
La contrazione nella produzione di pesche e nettarine in Europa è meno evidente che nell’America del Nord e in Oceania, ma la tendenza è destinata ad aumentare e se fino ad alcuni anni fa le difficoltà di mercato iniziavano con produzioni di 3,8-3,9 Ml di t (Italia, Spagna, Grecia, Francia), oggi la soglia si è abbassata a 3,5-3,6 Ml. Nel 1999 l’equilibrio del mercato europeo era valutato tra 2,3 e 2,4 Ml di t (Fideghelli, 1999); da allora il mercato è progressivamente cresciuto fino ai 3,8-3,9 Ml di un decennio fa circa, per poi ridimensionarsi senza un parallelo adeguamento della produzione. La produzione di Spagna, Italia, Grecia e Francia, nel 2019, è stimata intorno a 3,9 Ml di t e, già a maggio, la Spagna ha chiesto lo stato di crisi e il ritiro dal mercato di parte della produzione con il contributo dell’Ue. Si tenga conto che alla produzione dei 4 Paesi principali produttori va aggiunta la produzione degli altri stati europei (Romania, Bulgaria, Serbia, Croazia), attualmente pari a circa l’8%, con tendenza all’aumento, ciò che porta la produzione europea 2019 a circa 4,2 Ml di t.
La crisi italiana è stata innescata dalla produzione spagnola che, nell’ultimo decennio, è aumentata del 31-32 % con una media di produzione, nel triennio 2017-19, di oltre 1,6 Ml di t, mentre l’Italia è diminuita del 24% con una produzione media di 1,24 Ml. Nello stesso periodo anche la Grecia ha visto aumentare la produzione del 2-3% con una produzione di oltre 0,8 Ml di t. La peschicoltura francese, con una produzione di 0,2 Ml, ha continuato la propria parabola discendente con un calo del 46% nell’ultimo decennio.
Il successo della peschicoltura spagnola non è dovuto solo ai minori costi di produzione, ma anche a scelte imprenditoriali coraggiose che sono mancate ai frutticoltori italiani: anticipo del calendario di raccolta con la valorizzazione di cultivar a basso fabbisogno in freddo (oggi la stagione peschicola europea inizia a fine aprile), coltivazione su larga scala della tipologia a frutto piatto che oggi rappresenta oltre il 20% della produzione complessiva spagnola, innovazione della forma di allevamento per favorire, seppure parzialmente, la meccanizzazione della potatura (vaso catalano). Altri punti di forza sono una valida organizzazione commerciale, sostenuta da una burocrazia più snella di quella italiana, un forte impegno del miglioramento genetico privato per il miglioramento varietale e dei portinnesti, il potenziamento della ricerca e sperimentazione pubblica (un tempo erano i frutticoltori spagnoli a venire in Italia per aggiornarsi, ora sono i nostri frutticoltori ad andare in Spagna).
Nonostante i minori costi di produzione rispetto all’Italia, anche i produttori spagnoli cominciano ad avere difficoltà a sostenere la produzione con gli attuali prezzi di vendita delle pesche nei mercati di esportazione europei e, almeno in Catalogna, le autorità hanno promosso una campagna di estirpazione di 2.000 ha di pescheti con un contributo pubblico. Il ridimensionamento della produzione europea (Spagna e Italia in particolare) non è, però, la soluzione di tutti i problemi, ma è certamente il contributo più importante per uscire dalla crisi (Macchi, 2012) che si trascina ormai da un decennio.
La situazione italiana
Negli ultimi mesi si è molto parlato dell’istituzione del Catasto frutticolo, che alcuni auspicano possa diventare comunitario, come strumento di conoscenza della realtà produttiva per poter programmare con maggiore razionalità i nuovi impianti, sulla base della conoscenza di superfici, cultivar, territori, età dei frutteti. Si tratta di una iniziativa certamente positiva, ma senza un serio coordinamento delle Associazioni di Organizzazioni di Produttori avrà un impatto marginale per risolvere la crisi peschicola e le altre ricorrenti crisi del comparto frutticolo e su questo fronte prevale il pessimismo. Poco realistica a me pare la proposta avanzata di recente da Alleanza delle Cooperative Italiane di contingentare la produzione per Paese.
Un altro punto debole della commercializzazione delle pesche è la modesta qualità di buona parte della produzione che arriva sui mercati: grado di maturazione, consistenza, sapore, aroma, pezzatura. Il miglioramento genetico ha prodotto un netto miglioramento di due caratteri qualitativi come la consistenza della polpa per una migliore “shelf-life” e la colorazione rossa della buccia, particolarmente apprezzata dai consumatori (Palmieri e Pirazzoli, 2011). Paradossalmente questi due caratteri, di per sé positivi, sono spesso motivo di insoddisfazione dei consumatori; la precoce comparsa dell’intensa colorazione rossa che copre il colore di fondo, induce il frutticoltore, e ancor più la tanta manodopera non specializzata oggi impiegata nella raccolta, a staccare il frutto in anticipo rispetto al giusto grado di maturazione, con conseguente perdita di sapore, aroma e pezzatura. Anche l’eccessiva e persistente consistenza delle recenti cultivar “stony hard”, associata a scarsa succosità, non è accettata da tutti i consumatori, in particolare quelli di una certa età (che nel caso delle pesche sono la maggioranza), abituati alle cultivar del passato, meno serbevoli, ma piacevolmente deliquescenti.
Il problema della qualità gustativa è complicato dalla presenza delle tipologie “subacide” e “acidule”, non distinguibili dall’aspetto del frutto, ma molto diverse al gusto e mai segnalate sul banco di vendita. Anche il grandissimo numero di cultivar in commercio, arricchito ogni anno da un lungo elenco di nuovi nomi, non facilita la scelta dei frutticoltori e il raggiungimento di standard qualitativi omogenei durante tutta la stagione commerciale; iniziative positive di una seria sperimentazione preventiva sono state intraprese, ma la grande frammentazione della produzione nazionale rende difficile o impossibile una vera razionalizzazione della scelta varietale in funzione dei mercati di destinazione e delle preferenze dei consumatori.
A parte la fondamentale scelta della varietà, la qualità nasce in campagna con la buona pratica agronomica: concimazione equilibrata, irrigazione razionale, potatura accurata, diradamento precoce e basato su un giusto rapporto con la vigoria del ramo e numero di foglie/frutto, raccolta decisa sulla base di durezza della polpa e gradi Brix, corretto condizionamento post-raccolta. Se queste regole, che dovrebbero essere note a tutti, venissero applicate da tutti i frutticoltori, la produzione nazionale si ridurrebbe almeno del 10%, contribuendo ad un rapido riequilibrio del mercato.
È vero che la nuova Zelanda è un Paese molto più piccolo, dal punto di vista frutticolo, dell’Italia, ma l’esempio positivo di Zespri che controlla la produzione e la commercializzazione di quasi tutto il kiwi neozelandese, imponendo standard qualitativi rigorosi, sarebbe un esempio da imitare. Il miglioramento degli aspetti qualitativi e la corretta informazione ai consumatori sono molto importanti per arrestare o rallentare il calo dei consumi, anche se più difficilmente potrà incrementarli.
I marchi Dop e Igp possono essere una buona strada per valorizzare le produzioni territoriali (Scalise, 2018) avendo, però, ben chiaro in mente che il successo commerciale di un prodotto non è dovuto all’etichetta sulla confezione, ma alla qualità del prodotto che il marchio garantisce; troppe volte non c’è corrispondenza tra qualità promessa e qualità reale.
Un settore produttivo in cui l’Italia è ancora all’avanguardia è quello delle produzioni biologiche, così come lo è nel settore delle colture frutticole protette. Il successo dei prodotti biologici è universale e la richiesta in continua crescita, soprattutto nei Paesi più ricchi. Per le difficoltà oggettive della coltivazione in biologico del pesco, l’associazione con la coltura protetta può essere una carta vincente per il controllo dei principali patogeni fungini (monilia in primo luogo) e parassiti animali (mosca mediterranea, drosofila, cimice asiatica) senza l’uso o un uso molto ridotto di antiparassitari. Uno dei punti deboli della produzione biologica è la scarsa conoscenza dell’idoneità varietale per cui sarebbe necessaria una vasta sperimentazione su tutto il territorio nazionale; il progetto Mipaaf “Liste di orientamento varietale” che aveva iniziato ad occuparsi del problema è stato, purtroppo, interrotto da alcuni anni e il Ministero non intende riproporlo.
La vendita in azienda o nei mercatini “rionali” e la fornitura a piccoli venditori locali è la soluzione adottata da un numero sempre maggiore di produttori piccoli e medi, spesso delusi come soci di cooperative che da tempo non garantiscono neppure i costi di produzione. Questa scelta non risolve la crisi nazionale, ma per molti frutticoltori è la soluzione del bilancio aziendale: incasso immediato per il produttore e prodotto di buona qualità per il consumatore.
L’Italia esporta sempre meno pesche e ne importa sempre di più e le ragioni sono la concorrenza spagnola nei mercati del Nord Europa e quella greca e spagnola in quelli dell’Europa orientale. Il solo vero nuovo mercato di esportazione era la Russia che, fino a quando non sono state attivate le sanzioni da parte dell’Ue, ha contribuito ad alleggerire la concorrenza sui tradizionali mercati europei. La soluzione del contenzioso ancora non si vede e, nel frattempo, la Turchia sta occupando le posizioni che erano dei Paesi produttori Ue. La ricerca di nuovi mercati non va abbandonata e in diversi Paesi dell’Africa e del Sud dell’Asia c’è la potenzialità per un prodotto di qualità destinato ai nuovi ricchi di Paesi emergenti. Il potenziamento della produzione biologica, infine, potrebbe consentire di recuperare qualche posizione anche nei tradizionali Paesi importatori di pesche italiane (Palmieri e Pirazzoli, 2017; Scalise, 2018).
Per sostenere adeguatamente tutte queste sfide è fondamentale l’innovazione (genetica, agronomica, tecnologica, fitosanitaria, post-raccolta) che deriva da un sistema di ricerca efficiente, ma anche dalla capacità del mondo produttivo di saperne cogliere i vantaggi e di metterla in pratica. La ricerca frutticola italiana (universitaria e non) vive da alcuni anni maggiori difficoltà rispetto al passato, sostanzialmente dovute ad una progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici, solo in parte compensati da una maggiore disponibilità dei privati a contribuire al sostegno economico della ricerca. Da parte dei produttori non sempre c’è la capacità di sfruttare tempestivamente i risultati della ricerca pubblica italiana: un esempio per tutti sono le pesche piatte Ufo dell’ex Istituto Sperimentale per la Frutticoltura che, nel primo decennio del nuovo secolo, hanno fatto la fortuna di molti peschicoltori spagnoli e contribuito al sorpasso della Spagna sull’Italia. Più finanziamenti pubblici e più stretta collaborazione tra ricerca e mondo produttivo sarebbero necessari per sostenere un settore fondamentale come sono la peschicoltura e tutta la frutticoltura per l’economia agricola dell’Italia; al momento non ci sono molti segnali per essere ottimisti.