Appello per tornare competitivi: cambiamento strategico e colturale

cambiamento strategico

Il comparto dell’uva da tavola ha rappresentato per oltre un trentennio una delle eccellenze della frutticoltura Italiana. L’Italia è stata senza dubbio il Paese leader a livello mondiale per la produzione, ma dal 2000 lo scenario è cambiato e si assiste ad un trend negativo che interessa tutti i segmenti della filiera e che ha comportato la perdita o la contrazione dei volumi esportati in molti mercati di riferimento e una presenza minima di uva italiana nei nuovi mercati.

Una grande tradizione si va perdendo

Nell’ultimo ventennio la superficie ha registrato un decremento di oltre il 65%, con un valore che oggi si attesta intorno a 50 mila ettari, di cui circa 27.000 in Puglia (54%) e circa 16.000 in Sicilia (32%); la restante superficie si trova in Basilicata e, in misura ancora minore, Calabria, Sardegna e basso Lazio. La distribuzione geografica conferma l’avvenuto processo di meridionalizzazione della coltivazione dell’uva da tavola in Italia. Peraltro, è da registrare con interesse il recente sviluppo di un polo di produzione in Piemonte, nel Saluzzese, area storicamente interessata a questa coltura.

La quota di uva esportata, pari al 40% circa del totale della produzione nazionale, fa registrare rispetto al 2000 una riduzione dei volumi di circa il 10%. Nonostante l’Italia rimanga il primo produttore europeo, con circa un milione di t, la presenza di uva italiana nel commercio mondiale è bassa in termini di volumi, di valore e di Paesi interessati all’export, soprattutto se si considerano i nuovi Paesi importatori e consumatori.

Lo scenario negativo appena tratteggiato si registra, peraltro, per un comparto che a livello mondiale presenta nel ventennio un trend di significativa crescita in termini di produzione di uva (+70%), di consumo (+73%), di scambi internazionali (+50%) e di Paesi produttori e/o consumatori. Oggi l’immagine dell’Italia nel contesto mondiale è quella di un Paese con una grande tradizione, ma rimasto indietro in termini di varietà coltivate, obiettivi produttivi, tecnologia del post-raccolta, strategie commerciali, capacità competitiva, struttura e organizzazione complessiva del comparto, capacità di fare innovazione.
Il settore, condizionato dall’effetto “varietà Italia” è stato caratterizzato da una pressoché totale “inerzia varietale” che ha portato ad avere oggi una piattaforma ampelografica vecchia e superata, certamente non idonea a confrontarsi con i competitor, a soddisfare le esigenze del commercio mondiale e le preferenze dei consumatori. Ancora oggi le varietà apirene rappresentano meno del 35% della produzione nazionale e in Sicilia questa quota scende al di sotto del 10%. In Cile, California, Sud- Africa, Australia l’incidenza delle varietà senza semi supera il 95% e nei nuovi impianti che si realizzano in Egitto, Spagna e Perù si utilizzano soltanto uve apirene. Nel periodo 2000-07 nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite è stata iscritta solo una nuova varietà di uva da tavola; nel periodo 2008-11 nessuna; tra il 2012 e il 2015 le varietà iscritte risultano 46 di cui 36 apirene e, di queste, 35 ottenute da programmi di breeding “stranieri”; infine, nel triennio 2016-18 le nuove varietà sono 28 di cui 23 apirene e tutte di origine “straniera”.

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L’Italia ha accumulato un ritardo enorme e ha perso un’identità nazionale in termini di varietà coltivate che causa gravi e pesanti ripercussioni in termini di capacità e competitività commerciale del comparto. Nonostante sia ormai consolidato anche nel nostro Paese il cambiamento nella scelta varietale verso le uve apirene e siano stati avviati programmi nazionali di breeding che coinvolgono Istituzioni pubbliche e imprese private, non sarà facile coprire il gap che abbiamo nei confronti degli altri Paesi produttori, compresa la Spagna, principale competitor europeo. Appare necessario superare con urgenza le inopportune discussioni sulle “royalty” e sui sistemi di protezione e di valorizzazione delle varietà brevettate proposti dalle società di breeding, che hanno contribuito a ritardare il rinnovamento varietale e a presentare il comparto dell’uva da tavola italiano come impreparato al cambiamento. Il mancato rispetto delle norme di protezione delle varietà vegetali e, dove è possibile, la coltivazione non autorizzata delle varietà protette o di varietà non iscritte nel Registro Nazionale contribuiscono a ritardare lo sviluppo del comparto.

Certamente più utile è avviare confronti finalizzati a definire una strategia che consenta al Paese di dotarsi in tempi brevi di un’offerta varietale “di grande valore agronomico”, “moderna” e “identitaria”, che possa essere valorizzata mediante marchi commerciali singoli e/o collettivi. L’ottenimento di una nuova varietà non è l’obiettivo finale, ma soltanto il primo “step” di un percorso che deve proseguire con l’iscrizione nel Registro Nazionale, con l’accettazione della nuova varietà da parte dei produttori e del mercato, per concludersi con l’inserimento nella lista delle varietà richieste e offerte ai consumatori dalle diverse catene nazionali e internazionali della GDO. Per raggiungere quest’ultimo risultato è indispensabile un’attività di comunicazione e promozione che coinvolga più operatori commerciali. La frammentazione e l’eccessiva offerta di nuove varietà, spesso non sufficientemente valutate, che si sta verificando in questi ultimi anni, genera difficoltà e preoccupazione ai produttori per la scelta delle cultivar da adottare e confusione nei consumatori.

La rivalsa agronomica: impianti e coltivazione

L’Italia ha avuto una leadership riconosciuta nella gestione agronomica dei vigneti di uva da tavola. Il tendone “tipo Puglia” e, soprattutto, la viticoltura protetta con la coltivazione in serra o in vigneti coperti con film plastici per anticipare e/o ritardare la raccolta, sono stati caratteri identitari e innovativi del comparto. Nonostante la già citata concentrazione geografica degli areali di produzione, compresi tra 41° e 37° di Latitudine Nord, l’Italia ha un calendario di offerta molto ampio, di 8 mesi, che inizia dall’ultima decade di maggio e termina alla fine di dicembre. In passato ciò ha rappresentato un significativo punto di forza. Oggi, invece, in presenza di un mercato globalizzato e destagionalizzato dove operano nuovi Paesi produttori come l’Egitto, che hanno condizioni ambientali più favorevoli di molte aree italiane per la precocità di maturazione delle uve, oppure Paesi delle aree sub-tropicali e tropicali che producono uva in tutti i mesi dell’anno e Paesi dell’emisfero Sud caratterizzati da solida strategia e organizzazione commerciale, disporre di un ampio calendario di offerta non è sufficiente a garantire le esigenze di export del comparto in termini di prezzi e volumi, soprattutto in considerazione al fatto che oltre l’80% dell’export italiano è indirizzato verso il mercato europeo.

In questo mercato operano competitor europei ed extraeuropei dotati di capacità commerciale molto consolidata e aggressiva. Inoltre, un recente rapporto OCSE evidenzia che l’Europa è un continente “vecchio” per età media della popolazione, organizzazione del commercio e per stili alimentari e, inoltre, che gli scambi commerciali dell’uva da tavola stanno diventando sempre più Asia-centrici. Bisogna ampliare il numero di nazioni in cui si esporta l’uva italiana e questo richiede profondi cambiamenti negli obiettivi produttivi e nelle strategie di marketing. Bisogna conoscere l’organizzazione e la struttura dei diversi mercati; offrire uva con standard qualitativi, estetici e organolettici non standardizzati, ma differenziati in relazione alle esigenze alimentari e di organizzazione commerciale dei diversi Paesi; aumentare le conoscenze e adottare corrette scelte di gestione post-raccolta; migliorare il packaging e la logistica.

Cambio di strategia produttiva

In Italia bisogna effettuare un cambiamento della strategia produttiva. Emerge con sempre maggiore evidenza la necessità di superare il tradizionale “tendone” e di adottare forme di allevamento a ypslon e, comunque, di realizzare vigneti con forme di allevamento meno costose, più efficienti e più “semplici” nella gestione agronomica. Produrre e commercializzare “grappoloni” (peso del grappolo maggiore di 700 g, acini di grandi dimensioni (Ø > di 28 mm e peso > di 8 g) e di colore giallo oro non sono obiettivi produttivi validi per tutti i mercati; anzi, sono caratteristiche richieste in gran parte solo nei mercati e dai consumatori europei, più “tradizionali”. Bisogna adottare tecniche agronomiche finalizzate a produrre grappoli di caratteristiche esteriori uniformi, di dimensioni idonee per le esigenze del packaging e delle “moderne” modalità di vendita e consumo, con un grado di maturazione omogeneo, di elevate e particolari caratteristiche qualitative, di ottima “qualità sanitaria”.

Per questo aspetto, peraltro, un recente rapporto dell’Ufficio Federale Tedesco che si occupa di sicurezza alimentare ha classificato le uve prodotte in Italia tra le più sicure fra quelle consumate in Germania. Le produzioni per ettaro si debbono ottenere producendo un maggiore numero di grappoli, ma più piccoli. La gestione agronomica dei vigneti deve privilegiare le esigenze di efficienza e sostenibilità produttiva. Bisogna ridurre l’incidenza del costo della manodopera, oggi pari a circa il 70% del costo di produzione, e avvalersi nella gestione agronomica dei vigneti di sistemi irrigui efficienti, di “moderni “agrofarmaci, di adeguate strategie nella nutrizione minerale utilizzando nuovi formulati e prodotti di origine naturale. È necessaria la diffusione dei sistemi di supporto alle decisioni (SSD) e la valorizzazione dei continui progressi che interessano i settori della chimica, delle tecnologie e della sensoristica (“viticoltura smart”), in modo da disporre di dati agronomici puntuali in termini spaziali e temporali e a costi ridotti e potere intervenire con scelte agronomiche rapide e precise, operando con interventi che consentano la riduzione degli input esterni e ne aumentino l’efficienza, migliorando la capacità produttiva del sistema vigneto in termini di quantità e di qualità della produzione.

È necessario fare ricerca, produrre innovazioni di processo e di prodotto e trasferire le know-how nei differenti contesti operativi. In questo percorso particolare rilievo assume la figura dell’agronomo che deve svolgere nel comparto un ruolo che non si può limitare al supporto tecnico di campo.

Serve un’aggregazione rappresentativa del prodotto italiano

La ridotta dimensione media delle aziende italiane, l’elevata frammentazione delle strutture commerciali e la carenza di strutture con integrazione verticale dei segmenti della filiera è causa di debolezza e inefficienza operativa. Il livello di aggregazione nel settore è oggi il più basso (7%) nell’ambito dei Paesi produttori. Sono ancora pochi gli esempi di programmi di marketing moderni ed efficienti, che hanno creato marchi commerciali riconoscibili, facili da comunicare, certificare e tutelare. Bisogna incentivare queste iniziative, ma nello stesso tempo avere la consapevolezza che bisogna evitare la creazione di molti “brand” con ridotta capacità commerciale, che inevitabilmente genererebbero confusione nei consumatori e risulterebbero poco competitivi.

In India, 20 società gestiscono il 90% dell’export di uva da tavola. In termini di struttura del comparto la debolezza principale del sistema italiano è da ricercare però nell’incapacità di fare sistema e di aggregarsi. In California esiste la “California Table Grape Commission”; in Cile la Commissione di riconversione dell’uva da tavola e il Comitato dell’uva da tavola; in Sud Africa la “South African Table Grape Industry”; in Australia l’”Australian Table Grape Admnistration”; in Spagna l’Associazione dei Produttori di Murcia. Il comparto italiano dell’uva da tavola non ha un’associazione rappresentativa della filiera idonea a predisporre e attuare un piano strategico, individuare e realizzare le azioni prioritarie necessarie per il rilancio del comparto, svolgere azione di “lobby” nei confronti delle Istituzioni europee, nazionali e regionali al fine di indirizzare i processi decisionali, promuovere strategie di marketing, predisporre accordi commerciali con i diversi Paesi importatori, finanziare specifici programmi di ricerca e per il trasferimento delle innovazioni.

La carenza in ricerca e nel trasferimento di innovazioni di processo e di prodotto rappresenta uno dei principali punti di debolezza del comparto. L’innovazione deve coinvolgere l’intera filiera produttiva e dare risposte a tutti i segmenti del comparto con un approccio olistico. A tal proposito, è opportuno evidenziare che in mancanza di programmi strutturati, coordinati e affidati per la loro realizzazione alle Istituzioni di ricerca, il comparto si sta sempre più affidando per queste attività a iniziative finanziate da aziende private e sviluppate da tecnici e agronomi certamente di alta qualificazione professionale, ma che non essendo ricercatori non possiedono la necessaria, specifica formazione.
In sintesi, è indispensabile avviare un cambiamento radicale, fare scelte strategiche innovative, operare in tutti i segmenti della filiera in modo da ammodernare e reindirizzare il settore con la consapevolezza che anche se all’estero i prodotti ortofrutticoli vengono percepiti sempre meno come “tradizionali”, il comparto italiano dell’uva da tavola ha un vantaggio competitivo rispetto ai competitori, il valore del “brand Italia”.

Appello per tornare competitivi: cambiamento strategico e colturale - Ultima modifica: 2020-01-17T12:08:07+01:00 da Lucia Berti

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