Aggregazione deve diventare la parola d’ordine della filiera ortofrutticola

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Nonostante la spinta della grande distribuzione, non c’è mai stata un’adeguata reazione di aggregazione da parte del mondo ortofrutticolo, dominato da imprese di piccole dimensioni in concorrenza diretta fra di loro. Una situazione che continua ad aggravare lo squilibrio competitivo fra fornitori e clienti, aumentando tensioni nei rapporti di filiera e peggiorando la percezione del sistema da parte del consumatore. Superare il problema non è però solo questione di volontà, oggi occorre ricercare nuovi modelli imprenditoriali più flessibili

Aggregazione e concentrazione sono da oltre un decennio le parole d’ordine nel sistema economico internazionale. Nessun settore ha potuto ignorarle o immunizzarsi in qualche modo. Nell’alimentare, dopo un lungo periodo in cui le imprese italiane sono state oggetto di acquisizione da parte di multinazionali straniere, oggi i “gioielli” del nostro Made in Italy sono protagonisti di diverse operazioni sia nel mercato interno sia in quello estero per consolidare la loro leadership in segmenti strategici. Anche sul fronte distributivo, l’arrivo di colossi della distribuzione tedesca e francese, avvenuta negli anni ’90, ha ulteriormente accelerato il processo di concentrazione del sistema nazionale, tradizionalmente più frammentato rispetto alla media europea, con il coinvolgimento anche della distribuzione organizzata.

Il ritardo nell'aggregazione dei produttori

Non c’è stata però un’adeguata reazione di aggregazione del mondo ortofrutticolo, dominato da imprese di piccole dimensioni in concorrenza diretta fra di loro. Una situazione che ha aggravato lo squilibrio competitivo fra fornitori e clienti, aumentando tensioni nei rapporti di filiera e peggiorando la percezione del sistema da parte del consumatore. La forte concorrenza orizzontale fra i gruppi distributivi, in un mercato che già soffre di eccesso di superfici di vendita rispetto alla domanda potenziale, rende indispensabile anche per i produttori procedere celermente sulla strada dell’aggregazione. Un’eccezione è il sistema melicolo del Trentino-Alto Adige che, con quattro organizzazioni, rappresenta oltre 20 mila produttori e due terzi della produzione nazionale di mele. E comunque, malgrado i positivi effetti, non ha trovato proseliti in ambiti competitivi simili come pere e kiwi.

Forte asimmetria tra chi produce, vende e acquista

Il calo della competitività sul fronte dell’export e l’aumento dell’import ha progressivamente aumentato sul fronte nazionale l’asimmetria tra chi produce e vende e chi acquista. Non solo dimensionale ma anche manageriale, più grave e difficile da colmare in breve tempo.

In un recente studio Ambrosetti sul valore creato lungo la filiera agroalimentare per ogni 100 euro di consumi alimentari degli italiani, il 32,8% remunera i fornitori di logistica, packaging e utenze, il 31,6% il personale della filiera, il 19,9% le casse dello Stato, l’8,3% i fornitori di macchinari e immobili, il 5,1% gli azionisti di tutta la filiera agroalimentare estesa, l’1,2% le banche e l’1,1% le importazioni nette. Quei 5,1 euro di utile sono così ripartiti: 43,1% all’industria di trasformazione, 19,6% all’intermediazione, 17,7% all’agricoltura, 11,8% alla distribuzione e 7,8% alla ristorazione. Piccolo, autonomo e km zero sono concetti belli solo quando si va pranzo la domenica in un agriturismo ma se si vuole davvero creare valore è necessario fare economia di scala: mettere assieme volumi, fare rete, aggregare i modelli commerciali e gestional e ridurre i costi intermedi non necessari.

Il vuoto dei tavoli di concertazione

Dopo le aggregazioni degli anni ’90 del mondo mele e della cooperazione agricola emiliano-romagnola, si è osservata una sostanziale immobilità. Non è solo un problema di volontà, oggi occorre ricercare nuovi modelli imprenditoriali, più flessibili all’eterogeneità delle imprese coinvolte e più rispondenti alle esigenze di condivisione delle strategie che a logiche industriali. A questa mancata aggregazione si aggiunge, per contro, un eccesso di rappresentanze del settore agricolo primario: tra sindacati di agricoltori e grandi produttori, Cooperative e Organizzazioni dei Produttori, Unioni varie e Società Consortili si contano oltre 10 diverse sigle, spesso in conflitto tra loro. Accanto a questo un ruolo sempre più ancillare delle istituzioni, sempre meno orientate a fare indirizzo, ricerca e innovazione, ha generato un vuoto che ci si è illusi di poter colmare moltiplicando fantomatici tavoli di concertazione, comitati di crisi, organizzazioni inter o intra professionali. Tanti, troppi attori e senza reali mandati o poteri di intervento.

Ricerca di accordi trasparenti coi canali distributivi

Il Covid 19 ha accelerato processi di trasformazione latenti: crisi delle grandi superfici, crescita del canale dei supermercati semplificati, crescita esponenziale dell’on-line e in generale concentrazione della domanda richiederanno necessariamente un nuovo modello di relazione tra gli attori della filiera. La competizione è destinata ad aumentare. Co-operare sarà una necessità, suddividere in maniera differente il valore sarà la vera sfida. Sarà necessario comunicare al consumatore il valore del made in Italy, ma non vi può essere valore in una passata di pomodori italiana raccolta dai cosiddetti “schiavi di Rignano”. Cibo buono e sicuro per tutti è la missione di una filiera che sappia fare davvero sistema.

Aggregazione deve diventare la parola d’ordine della filiera ortofrutticola - Ultima modifica: 2021-04-07T15:57:33+02:00 da K4

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