Ultima chiamata per il comparto peschicolo: uscire dalla crisi cambiando strategie

comparto peschicolo
Aggregare la produzione, segmentare meglio l’offerta nei canali di vendita, migliorare la qualità del prodotto, restringe le tipologie produttive alle varietà migliori, rimodulare i finanziamenti europei legati ai piani operativi dell’Ocm: sono alcune delle linee su cui intervenire con urgenza per scongiurare un ulteriore declino della peschicoltura italiana.

Come noto, il comparto peschicolo è tra quelli in maggiore difficoltà, seppure nel quadro di una situazione di mercato insoddisfacente per la maggior parte delle referenze frutticole del nostro Paese. Un’immagine eloquente della perdurante difficoltà è offerta dall’analisi dei prezzi alla produzione nelle ultime cinque campagne: i dati mensili della Camera di Commercio di Ravenna, seconda provincia italiana per estensioni coltivate a pesco, evidenziano per le pesche e le nettarine una quotazione per prodotto di prima categoria che è variata da poco più di 0,20 €/kg fino ad un massimo di 0,60 €/kg nella scorsa campagna (Fig. 1), peraltro caratterizzata da volumi produttivi ridotti rispetto a quelli potenziali.

Fino a poco tempo fa si attribuiva soprattutto all’eccesso di produzione la causa principale di crollo dei prezzi nel corso della campagna di commercializzazione, con in particolare l’individuazione di una soglia critica di offerta europea attorno a 4 Ml di t, al di sopra della quale erano considerate quasi inevitabili le crisi di mercato. Più recentemente, si è puntato il dito contro la sovrapposizione dell’offerta fra le diverse aree produttive quale ulteriore fattore di ingolfamento dei mercati e conseguente crollo dei prezzi, ma l’analisi delle ultime campagne evidenzia che anche in annate non particolarmente critiche sotto questi aspetti i prezzi, pur risultando migliori rispetto alle campagne più produttive, permangono estremamente bassi, denotando ormai una sorta di allarmante criticità permanente per la peschicoltura.
Circa i prezzi di cui sopra, va rilevato che, essendo relativi a merce di prima categoria, il valore effettivamente percepito dal produttore risulta ulteriormente più basso e, dunque, molto lontano dalla compensazione dei costi sostenuti che, nel loro complesso, superano di poco 0,50 €/kg per cultivar a media maturazione e in annate caratterizzate da rese produttive ordinarie (Palmieri e Pirazzoli, 2015).

Con tali quotazioni è palese come le imprese, soprattutto quelle più professionali e di maggiori dimensioni o che hanno realizzato importanti investimenti, siano ben al di sotto della soglia di sostenibilità economica. Va, tuttavia, rilevato come la sostenibilità sia ormai a rischio addirittura anche in imprese a conduzione familiare (Palmieri e Pirazzoli, 2016), dove in ogni caso ben difficilmente al termine della vita produttiva dell’impianto questo avrà permesso di recuperare i capitali investiti, rendendo insostenibile un eventuale reimpianto. Un’ampia analisi dell’inefficacia delle misure d’intervento mancate o finora tentate è stata illustrata da Sansavini su questa Rivista (6, 2018).

Il contesto produttivo nell’Unione europea

Le conseguenze di questa situazione sono evidenziate in modo altrettanto eloquente dalle cifre relative agli investimenti che mettono in luce una situazione di progressiva e rapida dismissione della peschicoltura italiana. Nel contesto europeo, l’Italia è il Paese che ha maggiormente ridotto le proprie superfici nel quinquennio 2013-17, con quasi 9.000 ha in meno (Fig. 2), sebbene anche la Grecia evidenzi un apprezzabile calo degli investimenti (-3.000 ha), così come la Francia, ormai scesa al di sotto di 9.000 ha coltivati.

Solamente la Spagna mantiene pressoché stabili i propri investimenti, pur denotando una lieve flessione nel biennio 2016-17. Anche il paese iberico, protagonista di una tumultuosa crescita nell’ultimo decennio, inizia certamente ad avvertire l’evidente criticità legata alla stagnazione dei prezzi. In particolare, anche le produzioni più precoci, che normalmente spuntano prezzi decisamente elevati, sono partite nella campagna in corso su livelli molto bassi, non appena reso noto che l’offerta prevista risulta superiore del 23% circa rispetto al 2018. A titolo di esempio, secondo il report del Ministero dell’Agricoltura spagnolo, i prezzi delle pesche nella seconda settimana di maggio hanno registrato una quotazione inferiore a 0,60 €/kg, contro 1,49 €/kg dell’anno scorso.

Il quadro regionale italiano

Dalla lettura dei dati nazionali di fonte Istat, aggiornati al 2018, in Italia risultano investiti poco meno di 64.300 ha, denotando un’ulteriore flessione nelle superfici investite, rispetto al 2017, pari ad oltre 2.700 ha: nell’ultimo quinquennio è stato dunque perso il 13% delle superfici coltivate. Analizzando le dinamiche su base regionale si conferma quanto già evidente da diversi anni e cioè la progressiva meridionalizzazione della coltura, poiché la dismissione degli impianti appare di fatto concentrata nelle sole regioni settentrionali.

In particolare, la situazione più grave è quella dell’Emilia-Romagna, fino a pochi anni fa la prima regione peschicola del Paese e che, con riferimento al periodo 2014-18, ha perso ben 5.400 ha (Fig. 3). È da sottolineare anche che buona parte delle superfici dismesse non vengono reimpiantate con altre specie frutticole, ma sono riconvertite a seminativi, il cui carico unitario di lavoro è notevolmente più basso rispetto ai fruttiferi, generando così una rilevante perdita di lavoro. A titolo di esempio, sulla base di un fabbisogno medio di lavoro calcolabile per un pescheto in poco più di 500 ore/ha, qualora non siano reimpiantate altre specie da frutto sulle superfici espiantate, la perdita complessiva di lavoro per la regione è agevolmente calcolabile in circa 2,7 milioni di ore, pari a 337.000 giornate, dunque più di 1.500 unità lavorative (220 giornate/anno per 8 ore/giorno).

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Anche nelle altre regioni produttrici del Nord Italia le perdite sono comunque rilevanti e valutabili per il Piemonte in 1.300 ha e per il Veneto in 1.100. Circa 500 sono gli ettari persi in Basilicata, mentre nelle altre maggiori regioni produttrici del Sud, Campania, Sicilia e Puglia, l’andamento delle superfici coltivate si mantiene stabile nel tempo, nonostante talune fonti indichino dismissioni di impianti anche in queste aree (Borrelli, 2016). Nel complesso, secondo i dati Istat, il peso delle regioni meridionali e insulari sul totale delle superfici investite in Italia è passato dal 54 al 61% nel periodo in esame.

Da rilevare anche il progressivo crollo del rinnovo degli impianti, testimoniato dalla discesa dell’indice che rapporta le superfici in allevamento rispetto a quelle complessive; tale indice, sempre negli ultimi cinque anni, è diminuito dal 6 al 3,7%.

Il commercio estero

La difficile situazione del comparto è aggravata dal continuo peggioramento della “performance” italiana sui mercati internazionali. Il 2018 è riconosciuto come un anno particolarmente difficile per l’export italiano di ortofrutta in genere e anche pesche e nettarine non sono sfuggite ad una pesante diminuzione dei volumi avviati all’estero, che hanno toccato il livello minimo di 157.000 t (Fig. 4). Anche senza considerare il pesante calo registrato nel 2018, peraltro caratterizzato da una minor disponibilità di prodotto, si registra comunque un trend in continua contrazione. Sugli stessi volumi italiani si colloca la Grecia, mentre la Spagna continua a dominare il mercato dall’alto di una quota attorno al 60% del totale esportato dall’Ue.

In valore, l’export italiano è pari a circa 170 Ml di €, contro gli 800 Ml della Spagna, anche se nell’ultimo triennio si deve evidenziare un certo riavvicinamento del differenziale di prezzo, che appare tuttavia più giustificato da un ribasso progressivo delle quotazioni spagnole, soprattutto precoci.

Sul versante delle importazioni va segnalato come la domanda europea di pesche e nettarine permanga piuttosto stagnante, sebbene sia possibile rilevare qualche timido segnale di crescita, escludendo la campagna 2018 (Fig. 5). La Germania mantiene il ruolo di principale Paese importatore, con una quota stabilmente ancorata attorno al 23% del totale dei Paesi Ue.

La Germania si conferma anche come principale destinazione del prodotto italiano, anche se con una quota in calo dal 40 al 36% dell’export totale (Fig. 6), in virtù di un continuo ridimensionamento dei volumi inviati. Tra i primi mercati di collocamento perde quota anche la Polonia, mentre si confermano Austria, Repubblica Ceca e Svezia. È, infine, da rimarcare quale campanello d’allarme il dato relativo al saldo commerciale italiano nel 2018, chiuso con poco più di 40.000 t e 50 Ml di € di attivo, il minimo storico per un comparto da sempre tra i maggiori protagonisti dell’export nazionale.

L’attuale situazione di mercato

Le cause che hanno determinato il perdurare di questa situazione di criticità sono molteplici, prima fra tutte la già citata sovrapproduzione che, in concomitanza alla crisi dei consumi in Europa, determina un costante rischio di saturazione dei mercati. Pesche e nettarine, peraltro, sono specie che si prestano poco all’esportazione in Paesi lontani e, difatti, l’export verso Paesi extra-Ue è molto limitato e, oltretutto, in progressiva diminuzione, tanto che negli ultimi 3 anni ha rappresentano meno del 15% del totale.

Altri fattori notoriamente capaci di influenzare considerevolmente le dinamiche dei prezzi sono i picchi di concentrazione dell’offerta lungo la campagna e l’andamento climatico del periodo primaverile-estivo che può essere più o meno favorevole al consumo della frutta fresca estiva. Non va, inoltre, dimenticato l’aumento della pressione competitiva dall’estero, segnatamente dalla Spagna, che negli anni è andata sempre più specializzandosi nelle fasi media e medio-tardiva della campagna, anziché sul precoce, impattando dunque direttamente con le produzioni del Nord Italia. Non del tutto chiaro è il ruolo attribuibile all’eccessivo numero di varietà coltivate (Fideghelli, 2016), certamente elevato, e alle conseguenti difficoltà di uniformare nel tempo la qualità del prodotto offerto: pur esistendo un alto numero di varietà in commercio, queste sono comunque distribuite lungo più di 4 mesi di campagna di commercializzazione e su 4 tipologie di prodotto (pesche comuni, pesche piatte, nettarine e percoche) e, nel concreto, quelle a maggiore diffusione coprono un’ampia fetta del mercato. Più che l’eccessivo numero di varietà prodotte, il problema di fondo appare, in questo caso, la presenza di una certa quota di offerta poco qualificata sul mercato, spesso proveniente da piccole imprese non specializzate o con un’insufficiente professionalità produttiva. Anche se, nel complesso, tale quota non è particolarmente elevata, in una situazione di saturazione dei mercati come quella attuale, può giocare un ruolo attivo nel deprimere ulteriormente i prezzi.

In ogni caso, benché tutte queste motivazioni abbiano indubbiamente un ruolo di grande rilievo nel determinare momentanee o prolungate crisi di mercato lungo una campagna, è però certo che da sole non appaiono giustificative di questa ormai cronica condizione di insoddisfacente remunerazione del prodotto. Le cause fondamentali vanno, in realtà, oltre e sono individuabili in condizioni strutturali del comparto peschicolo in sé e, più in generale, dell’intero sistema distributivo e di consumo dell’ortofrutta.

uscita crisi settore peschicoloIl sistema produttivo, difatti, è tra i più frammentati nell’ambito del comparto ortofrutticolo, con un’offerta nazionale polverizzata e distribuita lungo tutto il territorio, in aree ben poco coordinate tra loro e, inoltre, a differenza di altre referenze frutticole, più scarse sono le azioni incisive di valorizzazione e di aggregazione del prodotto.
Con tale assetto è evidente come risulti molto difficile affrontare un sistema distributivo che, come ben noto, è fortemente concentrato. Il canale distributivo che fa capo alla Grande Distribuzione Organizzata e che in Italia veicola poco più del 60% dei volumi di ortofrutta (dati Cso-Gfk), inoltre, sta scontando un aumento della pressione concorrenziale senza precedenti. Il valore dei fatturati delle principali insegne distributive italiane evidenzia progressive contrazioni (dati Gdo report di Mediobanca) e anche le recenti acquisizioni di punti vendita di importanti catene distributive confermano il momento di difficoltà. L’unico format in crescita in questo campo è quello dei “discount”, a testimonianza di un consumo di massa che sempre più presta attenzione al prezzo come fondamentale, anche se non unico, “driver” di consumo.

Il consumatore moderno richiede, infatti, un contenuto sempre maggiore di servizi inclusi nel prodotto, quali packaging ad elevata praticità, garanzie di salubrità, tracciabilità, ecc., ma è poco disposto a pagare per essi. Se consideriamo, quindi, l’alta quota di costi per servizi logistici che si rendono necessari lungo la filiera distributiva di massa, è ancor più evidente come per affrontare questo canale occorra assolutamente un deciso cambio di strategia da parte del settore primario.

In particolare, appare chiaro soprattutto come occorra fare una scelta tra permanere nel canale distributivo più massivo, oppure valutare forme alternative di filiera che, pur detenendo una quota limitata di mercato, sono in fase di decisa crescita. Tra questi canali va certamente citata la vendita diretta organizzata che può esprimersi sotto molteplici forme, anche evolute, come quelle che sfociano in piattaforme di vendita “online”.

Naturalmente, tali forme richiedono sforzi supplementari alle imprese di natura economica e organizzativa, ma possono consentire ritorni economici migliori, oltre a vantaggi indiretti quali la fidelizzazione e la miglior conoscenza dei consumatori rispetto ai canali massificati (Palmieri e Pirazzoli, 2017, 2019).

Nell’ambito del canale massivo, invece, il cambio di strategia deve essere attuato dalle strutture a valle delle imprese di produzione e, poiché la crisi della peschicoltura sta colpendo soprattutto le aree settentrionali del Paese, è auspicabile che siano soprattutto i grandi gruppi commerciali, in particolare quelli a struttura cooperativa, ad assumere il necessario ruolo di guida e di tutela del mondo produttivo, invece di proporsi come semplici strutture di lavorazione e distribuzione del prodotto. è auspicabile che siano imposte le scelte più opportune e che si provveda finalmente a quell’aggregazione dell’offerta in difetto della quale non vi è alcuna possibilità di successo in questo canale. In un settore così frammentato come quello peschicolo, in assenza di una forte aggregazione dell’offerta, non è, infatti, ipotizzabile mettere in atto quelle attività di valorizzazione ormai da tempo indicate come basilari per il rilancio del comparto, quali, ad esempio, il miglioramento e la standardizzazione della qualità, puntando su poche e selezionate varietà, la valorizzazione e la promozione del prodotto, nonché un migliore controllo dei volumi immessi sul mercato. Le stesse azioni servirebbero anche al rilancio dell’export italiano, da tempo soffocato dall’organizzazione e dall’efficienza logistica spagnola.

Al fine di favorire questo cambio di rotta, è fondamentale un deciso intervento delle Istituzioni per creare da un lato le condizioni per aggregare virtuosamente anche la cosiddetta “offerta privata”, cioè quell’ampia fetta di offerta che non transita attraverso le Organizzazioni dei Produttori, e, dall’altro, rimodulando l’attribuzione dei finanziamenti previsti dall’Ocm alle stesse Op sul versante commerciale piuttosto che strutturale, imponendo più stringenti vincoli aggregativi per l’accesso ai fondi ed evitando di impiegare fondi solamente per nuove linee di produzione, per il ritiro del prodotto o per il rinnovo di impianti destinati con ogni probabilità a produrre frutta senza uno sbocco di mercato.

Leggi l’articolo completo di grafici sulla Rivista di Frutticoltura n. 6/2019

Ultima chiamata per il comparto peschicolo: uscire dalla crisi cambiando strategie - Ultima modifica: 2019-07-24T09:55:11+02:00 da Lucia Berti

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