La “moria del kiwi”, che comporta il progressivo deperimento fino al collasso delle piante, sta decimando gli impianti di actinidia del veronese (ed in alcune aree della limitrofa provincia di Mantova). Il fenomeno ha ormai assunto dimensioni preoccupanti: infatti, dopo gli isolati casi registrati nell’estate del 2012 nelle zone moreniche a Sud-Est del Lago di Garda ed un picco delle segnalazioni tra maggio e giugno 2013, le più recenti stime indicano oltre 1000 ha già compromessi sparsi tra oltre 400 aziende agricole con un danno valutato intorno ai 100 Ml € nei prossimi 4 anni (Ansa, 2015). La situazione potrebbe, inoltre, aggravarsi se si considera che nell’areale ci sono circa 1.000 aziende agricole e 4.000 ha coltivati a kiwi, il 13% della produzione nazionale per un giro d’affari di oltre 50 Ml €/anno.
Per fronteggiare l’evento, tanto sconosciuto quanto inatteso, la Regione Veneto, tramite le associazioni di categoria, le autorità competenti, nonché diverse realtà locali (tra cui l’associazione di diverse amministrazioni comunali direttamente investite) sta intervenendo al fine di mappare gli impianti colpiti e limitarne l’espansione. Per molte aziende del veronese il kiwi rappresenta la fonte di reddito principale, avendo sostituito nel tempo il meno redditizio pesco.
La sintomatologia
I sintomi compaiono in genere all’inizio dell’estate, indifferentemente su piante periferiche o centrali all’impianto, procedendo poi sulle piante adiacenti. I sintomi ricorrenti si osservano dalla fase di allegagione, dapprima su pochi germogli sui quali compaiono disseccamenti parziali che avanzano dal margine o dall’apice del lembo fogliare verso l’interno, fino ad interessare gran parte della lamina stessa. Le foglie presentano estese necrosi brune, spesso accompagnate da deformazioni del margine fogliare. Successivamente, quando le necrosi interessano la maggior parte delle foglie, subentra la filloptosi ed il collasso definitivo delle piante. Nel decorso del fenomeno le piante presentano un’attività vegetativa ridotta ed uno scarso sviluppo dei frutti. Tra i sintomi più evidenti, l’apparato radicale manifesta imbrunimenti diffusi, specie a carico delle radici più piccole, con scarso rinnovo di quelle primarie (bianche). Nei casi più gravi si osserva ipertrofia e successivo disfacimento dello strato corticale più esterno delle radici che tende a separarsi agevolmente (distacco floematico) dal cilindro centrale.
Cosa sappiamo
Sebbene il fenomeno appaia complesso e probabilmente riconducibile ad un insieme di fattori, diverse indagini (alcune tutt’ora in corso) hanno al momento escluso alcune delle cause inizialmente ipotizzate ossia:
1) qualità delle acque di irrigazione;
2) presenza di sostanze tossiche/chimiche accumulate nel terreno;
3) concentrazione di metalli pesanti nei tessuti delle piante;
4) anomalie sulla composizione/struttura del terreno;
5) presenza di nematodi;
6) sintomi riconducibili alla batteriosi del kiwi causata da PSA (Pseudomonas syringae pv. Actinidiae);
7) anomalie legate a squilibri termici;
8) tossicità indotta da interventi fertilizzanti/fitosanitari (Tacconi et al., 2014a; Tosi et al., 2015).
Inoltre, il fatto che giovani piante sintomatiche trapiantate su terriccio mostrino una ripresa, indica che il fenomeno è legato alle condizioni inospitali dell’ambiente di coltivazione (suolo). Questa risposta, tuttavia, non esclude totalmente gli aspetti fitosanitari poiché il cambiamento delle condizioni ambientali potrebbe mascherare, almeno inizialmente, l’attacco dei patogeni. D’altra parte, alcuni test di patogenicità sembrano individuare nell’azione di alcuni funghi rinvenuti nel suolo e appartenenti ai generi Phytophthora e Pythium (es. P. cryptogea) un potenziale coinvolgimento (diretto o indiretto) nel fenomeno (Tacconi et al., 2014b).
I disseccamenti fogliari iniziali, la riduzione dell’attività vegetativa, lo sviluppo ritardato dei frutti indotto da una disfunzione dell’apparato radicale potrebbero essere conseguenze degli effetti causati direttamente o indirettamente anche dalle abbondanti “elicitine” liberate dal fungo nei punti di infezione, tossine proteiche note per i loro effetti sistemici nelle piante (Mazzucchi et al., 2013). Diverse sono le attività di sperimentazione in corso con l’obiettivo di individuare strategie efficaci per contenere la problematica; tra queste ne citiamo solo alcune: valutazione di funghi antagonisti; riattivazione degli apparati radicali mediante sostanze stimolanti; impiego di diversi compost; valutazione di strategie agronomiche e di gestione del suolo (es. lavorazioni, baulature); valutazione dell’effetto di alcune essenze erbacee; selezione di portinnesti tolleranti (Tacconi et al., 2014).
La gestione dell’acqua e le relazioni suolo-radice
Gli eventi meteorici avversi registrati negli ultimi anni abbinati ad una gestione irrigua talvolta poco razionale hanno, probabilmente, esercitato un ruolo cruciale nella comparsa della “moria del kiwi”.
Questa nota, sebbene non intenda escludere il potenziale coinvolgimento di altre concause né tantomeno offrire facili interpretazioni o proporre soluzioni immediate al fenomeno, intende discutere alcuni aspetti, suffragati da preliminari osservazioni sperimentali, legate al ruolo che l’acqua (meteorica e irrigua) può avere avuto nel fenomeno della “moria” delle piante di kiwi nel veronese. Benché già noto agli addetti del settore, va ricordato che la pianta di actinidia è particolarmente sensibile ai ristagni idrici, anche transitori, i cui effetti deleteri possono insorgere, qualora il terreno non provveda al rapido drenaggio delle acque in eccesso, anche a seguito di forti piogge (Reid et al., 1992). La letteratura riporta che, a seguito di eventi meteorici particolarmente intensi (precipitazioni sei volte superiori alla media stagionale) concentrati all’inizio dell’estate a causa del ciclone Delilah, circa 30.000 piante di actinidia (su oltre 50 ha) sono morte in Nuova Zelanda in virtù della saturazione idrica del suolo per 3 giorni consecutivi (McAneney et al., 1989). Similmente, sempre in Nuova Zelanda, deperimenti precoci di piante di actinidia sono descritti a seguito delle precipitazioni causate dal ciclone Bola (fino a 440 mm in 48 h) (Reid et al., 1988).
Le radici di actinidia presentano un elevato consumo di ossigeno, nonostante lo spazio tra le cellule radicali destinato alla circolazione dei gas sia piuttosto limitato (circa il 2% dell’intero volume) (Smith et al., 1989). Per tale ragione, la specie è annoverata tra quelle altamente sensibili (spazio vuoto tra le cellule radicali inferiore al 5% del volume radicale totale) alle condizioni di anossia nella rizosfera (Jackson e Drew, 1984). Studi condotti in condizioni controllate hanno evidenziato che una pianta di actinidia adulta può consumare circa 4,6 X 10-6 mol m-3 s-1 di ossigeno e che pertanto può impiegare solo 5 ore ad esaurire quello a disposizione nella rizosfera in un suolo ben aerato, passando quindi ad una situazione di asfissia (Smith et al., 1989).
Gli studi condotti da Smith et al. (1990) evidenziano che la crescita radicale di piante di actinidia (cv. Hayward) è stata ridotta già dopo 3 ore/giorno di asfissia ripetuta per 10 giorni. Gli stessi autori riportano una sostanziale riduzione dell’attività stomatica fogliare (Fig. 5) e la successiva comparsa di macchie necrotiche sulle foglie più vecchie in conseguenza della sospensione dell’ossigenazione radicale. Effetti simili sono stati registrati anche a seguito di irrigazioni eccessive su piante della cv. Abbot (Save e Serrano, 1986). La funzionalità stomatica delle piante di Hayward è stata pienamente recuperata solo dopo 3 giorni da quando sono state ripristinate le normali condizioni di aereazione (dopo 24 h di anossia), mentre non è stata recuperata per le piante mantenute in asfissia per almeno 3 giorni continuativamente, a testimonianza degli effetti irreversibili indotti dell’asfissia radicale, anche di breve durata. Alcuni studi testimoniano la relazione tra radici e comportamento stomatico della pianta mediante la trasmissione di segnali da parte delle radici che riflettono, di fatto, le condizioni del suolo (Bradford e Hsiao, 1982; Gowing et al., 1990).
Evidenze sperimentali testimoniano che, in actinidia, è sufficiente che il 25% delle radici siano soggette a condizioni di anossia per determinare un calo della conduttanza stomatica della chioma dopo circa 48 h (Smith et al., 1989). In queste condizioni, (carenza di ossigeno nel suolo nella zona radicale dovuta ad eccesso idrico) aumenta lo sforzo che le radici stesse incontrano nell’assorbimento dell’acqua. L’interruzione del flusso idrico verso le foglie (sebbene l’acqua abbondi nel suolo) è quindi tra i responsabili del disseccamento di queste ultime (Jackson e Drew, 1984). Tra i meccanismi che mantengono l’idratazione dei tessuti della chioma è inclusa la traspirazione, necessaria anche per regolare la temperatura (omeostasi), soprattutto in condizioni di alta irradiazione (Morandi et al., 2010). L’eventuale declino della conduttanza stomatica della pianta dovuta a stress diversi (es. inefficienza radicale), porta all’aumento di temperatura in prossimità della superficie fogliare maggiormente esposta alla radiazione solare, con ripercussioni anche letali per le foglie stesse. Tuttavia, proprio per contrastare gli effetti negativi legati alle elevate temperature, è stato osservato che l’actinidia non chiude mai completamente gli stomi, nonostante condizioni di stress idrico elevato (Dick, 1978). Ciò comporta la ridotta ma costante perdita di acqua nell’ambiente che, qualora non ripristinata dall’apparato radicale, porta al disseccamento fogliare. Solitamente, sintomi di necrosi sulle foglie possono comparire sulle piante di actinidia già dopo 1 giorno dall’instaurarsi delle condizioni di asfissia (Reid et al., 1991).
Esistono, inoltre, sufficienti evidenze che riportano come danni alla chioma in piante di actinidia soggette ad asfissia radicale siano associati all’incremento di etilene, acido abscissico e alla diminuzione di citochinine provenienti dalle radici danneggiate (Jackson e Drew, 1984).
I primi segnali di “moria” delle piante nel veronese risalgono al 2012 (annata non eccezionalmente piovosa), mentre il picco delle segnalazioni si è avuto nel 2013, anno nel quale le precipitazioni primaverili sono state particolarmente intense con un incremento del 25% rispetto alla media degli ultimi 50 anni (Fig. 2). Nel 2014 poi, le piogge sono state regolari fino a marzo per poi aumentare di intensità e frequenza tra la fine di aprile e maggio. Tuttavia, già nel 2010, da maggio, è stata sempre superata la soglia dei 100 mm di pioggia mensili (eccetto luglio), con un picco di oltre 200 mm/mese in settembre e novembre. La piovosità totale di quella stagione ha sfiorato i 1.400 mm che si è aggiunta agli oltre 1.100 mm del 2013 ed ai 1.200 del 2014. A dispetto dell’andamento climatico anomalo, gli apporti irrigui negli impianti veronesi hanno rispettato la tradizionale gestione dell’areale, che prevede interventi per scorrimento e turni di adacquamento settimanali dal 15 di aprile a tutto settembre, per un totale di circa 20-22 turni a stagione. Ad ogni turno i volumi distribuiti sono pari a circa 350.000-400.000 l/ha che corrispondono a 35-40 mm di acqua. Ciò interessa approssimativamente l’80% delle aziende a kiwi della zona in questione. Solitamente, la sospensione del turno settimanale di irrigazione avviene con la chiusura dei canali di approvvigionamento a seguito di precipitazioni importanti (> 50 mm in un unico evento). Nelle zone nelle quali è più difficile sospendere il servizio, tale soglia è innalzata ad oltre 100 mm. In aggiunta, per chi dispone di risorse idriche indipendenti (pozzo artesiano) è frequente un intervento irriguo intermedio (a 3 giorni dallo scorrimento) con microjet sottochioma con volumi pari a circa 10 mm/turno. Va inoltre ribadito che il sistema consorziale di distribuzione dell’acqua di irrigazione del comprensorio è piuttosto rigido ed in molti casi l’agricoltore non ha la possibilità di rinunciare o posticipare il turno irriguo. Può, tuttavia, rinunciare alla disponibilità annuale di acqua per l’irrigazione, sebbene continuando a versare la quota consorziale (Tacconi et al., 2014a).
Probabilmente, ciò che si sta verificando nel veronese non può essere imputato alla gestione irrigua di una sola annata, ma è frutto del reiterarsi di condizioni di stress che, in coincidenza di precipitazioni abbondanti nei mesi primaverili-estivi, hanno definitivamente alterato l’equilibrio dell’albero. È quindi plausibile che già prima del 2012 le piante presentassero danni ingenti all’apparato radicale, non più in grado di fronteggiare condizioni di asfissia. È noto, infatti, che nonostante le condizioni ripetute di asfissia del suolo, i sintomi a carico della chioma di actinidia possano rimanere latenti a lungo ed emergere in caso dell’aggravarsi della situazione (es. precipitazioni anomale; Hughes e Wilde, 1989).
È altresì ipotizzabile che la funzionalità dell’apparato radicale delle piante adulte sia, a questo punto, irrimediabilmente compromessa in molti impianti e che il reiterarsi di condizioni sfavorevoli nelle annate a venire possa comportare il deperimento totale delle piante. D’altra parte, evidenze sperimentali avevano già in passato provato che la tradizionale gestione irrigua per scorrimento dei frutteti del comprensorio veronese può determinare il compattamento e la perdita di porosità del suolo con conseguente carenza di O2 e sviluppo di CO2 ed etilene (Xiloyannis et al., 1992). La questione è stata nuovamente affrontata in un articolo recente che conferma che il sistema irriguo a scorrimento favorisce la deposizione di particelle di limo e argilla (trasportate con il flusso irriguo superficiale) all’interno dei pori, creando una pellicola impermeabile che non permette il movimento dell’acqua negli strati profondi, limitando perciò l’ossigenazione radicale (Montanaro et al., 2014). In queste condizioni (umidità prolungata del suolo dovuta a scarso drenaggio e allagamenti temporanei), non si può escludere lo sviluppo di funghi patogeni, come ad esempio quelli appartenenti al genere Phytophthora, peraltro già recentemente rinvenuti negli impianti “morenti” (Mazzucchi et al., 2013), le cui infezioni (anche letali) su kiwi sono già note (Gianetti et al., 2002).
Al fine di evidenziare eventuali alterazioni anatomiche e fisiologiche, campioni di apparati radicali di actinidia del veronese (piante sofferenti, ma non morte) sono stati confrontati con campioni della stessa cultivar (Hayward autoradicata) prelevati presso l’azienda didattico-sperimentale dell’Università di Bologna a Cadriano (Bo). Nonostante rimangano valide le considerazioni relative all’ambiente di coltivazione (es. terreno) e dall’età degli alberi, che indubbiamente condizionano lo sviluppo delle radici, da un primo confronto (Fig. 8), emerge come le radici prelevate nel comprensorio bolognese presentino un abbondante capillizio radicale (radici bianche primarie), nonostante l’epoca di campionamento tardiva (ottobre, 2015) distribuito in maniera pressoché uniforme lungo tutto il franco di coltivazione. Al contrario, la radice di actinidia proveniente dalla zona del veronese appare sofferente, caratterizzata da uno scarso rinnovo, con apici radicali appena abbozzati, sintomo di un ambiente di coltivazione inospitale.
Le indagini eseguite al microscopio su sezioni di radici (Ø 3 mm), confermano la maggiore vitalità e funzionalità del sistema vascolare delle radici allevate nella pianura bolognese (Fig. 9). I vasi xilematici del campione veronese, sebbene in numero maggiore, presentano un diametro inferiore ed alcuni appaiono parzialmente o totalmente ostruiti, limitandone, di fatto, la funzionalità complessiva.
La figura 10 sembra poi confermare la funzionalità compromessa del sistema vascolare delle radici delle piante del veronese, evidente sia nell’area del cilindro centrale (tessuto xilematico) sia della zona corticale (tessuto floematico). Anche la diversa colorazione (il campione B appare translucido, più scuro nella porzione esterna) viene descritta come sintomo di uno stato generalizzato di sofferenza (anossia) e di disfunzione vascolare (Reid et al., 1991). Le conseguenze di quest’ultima condizione sono riproposte anche nella perdita di turgore e nella disposizione disordinata delle cellule corticali che si osserva nel caso di radici allevate in assenza, anche limitata, di ossigeno (Smith et al., 1990). Ciò sembra compatibile con quanto emerge nelle immagini a fluorescenza (Fig. 11) che evidenziano la diversa disposizione cellulare della parete corticale della radice, responsabile dei flussi floematici.
Alla luce di tali evidenze, e sebbene permangano alcune questioni (es. segnalazioni di piante sintomatiche anche in actinidieti irrigati esclusivamente con microjet e con volumi d’acqua contenuti, sia in terreni di pianura (nei quali spesso predomina una tessitura grossolana, ricca di scheletro o sabbiosi) sia in collina (dove dovrebbe essere garantito un più rapido sgrondo delle acque in eccesso), appare indiscutibile il coinvolgimento della gestione idrica degli impianti nel repentino declino delle piante di kiwi del veronese. Il legame è anche testimoniato dal fatto che nel 90% dei casi di moria dei frutteti del veronese l’irrigazione prevedeva il sistema per scorrimento e solo nel rimanente 10% gli impianti venivano irrigati indifferentemente mediante sistemi alternativi (Tosi et al., 2015). Verosimilmente, le ripercussioni attuali sono frutto della gestione idrica poco razionale nel corso di decenni ma che, con il susseguirsi di stagioni climaticamente “anomale”, sono sfociate nella moria delle piante. È altresì ipotizzabile che la gestione idrica incriminata sia stata l’elemento scatenante di una serie di condizioni avverse (es. patogeni) che hanno danneggiato l’apparato radicale delle piante.
E adesso…che fare?
Mentre gli effetti avversi sul suolo indotti da eventi meteorici anomali difficilmente possono essere controllati, la gestione dell’irrigazione può essere migliorata ed in particolare si raccomanda di adottare gli strumenti a disposizione della moderna frutticoltura per ottimizzare la gestione idrica sia in termini di soluzioni realizzative (impianti a basso consumo), sia di gestione (es. turni e volumi).
Appare necessario un deciso cambio di rotta in tal senso, facendo riferimento a sistemi irrigui più efficienti, capaci di soddisfare il reale fabbisogno idrico della coltura nelle diverse fasi fenologiche (il cui buon esito è comprovato già in numerosi altri ambienti) utilizzando, per la gestione ordinaria, parametri oggettivi (es. tensiometri o altri strumenti atti a valutare il potenziale idrico del suolo e/o della pianta). Si raccomanda di fare riferimento al bilancio idrico ed apportare la quantità di acqua effettivamente evapotraspirata con frequenza giornaliera. Apporti irrigui eccessivi devono essere evitati, in particolare all’inizio ed alla fine del ciclo vegeto-produttivo della pianta.
È necessario frazionare i volumi, intensificare i turni e iniziare alle prime ore del mattino, quando cioè la pianta apre gli stomi e la richiesta d’acqua è maggiore.
Per gli impianti in essere, qualora l’apparato radicale non sia già irrimediabilmente compromesso, si raccomanda di sospendere l’irrigazione per scorrimento, di effettuare una serie di lavorazioni del terreno per favorire l’ossigenazione e l’evaporazione delle acque in eccesso, anche a rischio di rompere il cotico erboso. Contemporaneamente, è necessario il contenimento drastico della chioma (mediante potature energiche) per ridurre il rapporto chioma:radice, limitando gli sforzi dell’apparato radicale in attesa di una sua ripresa di efficienza. Anche l’apporto di ammendanti organici di qualità (es. letame bovino, compost ecc.) potrebbe contribuire a stimolare l’emissione di nuovi apici radicali.
Per gli impianti nuovi, oltre all’adozione di strumenti per il monitoraggio dello stato idrico del suolo, è necessaria la messa in opera di pratiche agronomiche capaci di favorire l’instaurarsi delle condizioni ideali per la proliferazione di nuove radici: baulature, impianti di drenaggio e fossi di scolo ai margini degli appezzamenti, mantenimento del cotico erboso lungo l’interfilare e di adeguati livelli di sostanza organica nel suolo.