Scrive in una recente review sull’argomento Laura Bardi, una ricercatrice del CREA di Torino, che è necessario tornare indietro nel tempo per avere le prime segnalazioni di quella che solo recentemente è stata definita la moria del kiwi (kiwifruit vine decline o kiwifruit root rot nella terminologia anglosassone).
La situazione è preoccupante per la difficoltà nel comprendere bene le cause del fenomeno. Condizioni di asfissia radicale da una parte e sviluppo anomalo di popolazioni fungine e batteriche tipiche di terreni asfittici sono sempre descritti in stretta associazione da autori italiani, neozelandesi e giapponesi, ma proprio perché si tratta di interazioni complesse tra fattori abiotici e biotici, comprendere bene il fenomeno e proporre i rimedi non è facile. Proviamo a tratteggiare in maniera semplice ma rigorosa quanto osservato finora e i tentativi per contrastare le cause del fenomeno.
La sintomatologia
Le piante colpite da moria mostrano i sintomi più evidenti nell'apparato radicale, che presenta sviluppo limitato e superficiale. Il nuovo capillizio (feeding roots) è quasi assente. All'estremità delle radici principali sono evidenti le “code di topo” caratterizzate dal disfacimento dello strato corticale (foto G. Tacconi)La sintomatologia è tipica di piante con problemi di asfissia radicale. Le piante mostrano ridotta attività vegetativa, accrescimenti stentati e avvizzimenti dei germogli con successivi disseccamenti di parti di pianta. Talvolta le piante sopravvivono stentate e ricacciano in autunno, ma spesso è l'intera pianta a collassare.
I sintomi più evidenti si notano, tuttavia, nell’apparato radicale, che presenta sviluppo limitato e superficiale, spesso confinato nelle vicinanze del tronco, assenza di nuovo capillizio, marcescenza diffusa delle radici più grosse, che presentano il distacco della corteccia, che si sfila dal midollo.
La malattia compare inizialmente in aree limitate dell’actinidieto, spesso in zone caratterizzate da ristagni d’acqua. Piano piano nel tempo l’area compromessa si allarga interessando zone sempre più ampie dell’impianto.
La diffusione in Italia e nel mondo
Gli ultimi dati disponibili dicono che in Italia la malattia ha interessato finora oltre 3.000 ha, con un’incidenza pari al 12% dell’intera superficie italiana coltivata ad actinidia, ma stime di quest’anno delineano un quadro ben peggiore con oltre il 21% degli actinidieti italiani compromessi dalla moria (tab. 1).
La provincia di Verona è stata la prima a segnalare il problema nel 2012, con qualche caso sporadico segnalato fin dalla fine degli anni ’90. Attualmente 2.000 ha su un totale di 2.382 (84%) presentano il fenomeno. Altre aree importanti sono venute di seguito, come il Cuneese in Piemonte, il Friuli Venezia Giulia e la provincia di Latina nel Lazio (tab. 1). Più recentemente il fenomeno è comparso in Emilia Romagna e Calabria, anche se per queste zone le stime sono più approssimate. In generale il fenomeno interessa principalmente aree in cui l'actinidia è diffusa da molto tempo. Interessa impianti vecchi, ma anche reimpianti. Recentemente sono stati segnalati deperimenti in impianti giovani realizzati su terreni non coltivati a kiwi in precedenza.
Fenomeni di moria o riconducibili a questa sono stati osservati anche in altri Paesi come Francia, Spagna e Portogallo, Grecia, Turchia, Giappone, mentre in altri Paesi, dove la coltura è recente e poco diffusa, il fenomeno è verosimilmente presente, ma, per la scarsa importanza, non è stato descritto in maniera formale. Fanno eccezione paesi, come il Cile, caratterizzati da piogge limitate, suoli profondi e dove l’irrigazione è da tempo gestita correttamente, che non manifestano sostanzialmente fenomeni di moria come quello descritto sopra.
Marciumi radicali in actinidia sostenuti da specie appartenenti al genere Phythophthora segnalati in passato in Nuova Zelanda, Cile, Francia, Italia, Cina, Corea e considerati a quei tempi di scarsa rilevanza sono oggi riletti con attenzione, perché potrebbero essere state le prime avvisaglie del fenomeno che osserviamo oggi su superfici sempre più estese in diversi Paesi.
Impatto economico e sociale
Il danno economico e sociale legato alla moria è molto alto, con un calo di produzione, che è stato stimato, per esempio, in Piemonte in circa 18.000 tonnellate di prodotto e una perdita economica pari a 20 milioni di euro all’anno. Il Veneto, che ha visto recentemente il fenomeno della moria espandersi rapidamente, stimava già nel 2015 perdite per 50 milioni di euro di mancata produzione accompagnata dalla perdita di 300 posti di lavoro [Senato della Repubblica XVIII Legislatura, 9ª Commissione 9º Res. Sten. 29 novembre 2018].
Se si calcola il costo dell’espianto dell’actinidieto, l’allestimento di una nuova coltivazione e i mancati redditi, i costi della malattia possono essere di molto superiori (Sorrenti et al. 2016).
Vi è poi il fondato rischio di un allargamento ulteriore delle aree colpite nelle regioni ricordate, ma anche in altre regioni in cui la "moria" ha fatto la sua comparsa in tempi più recenti, come Friuli Venezia Giulia, Lazio, Emilia Romagna, Calabria.
Il perdurare della PSA (cancro dell’actinidia) e la diffusione della cimice asiatica (Halyomorpha halys) stanno determinando l’abbandono della coltura dell’actinidia in aree tradizionalmente vocate per questa specie, sostituita con non poche difficoltà e, a volte, insuccessi da nuove colture come, per esempio, nocciolo, melo, piccoli frutti, olivo, uva da vino e da tavola in Piemonte; melograno, uva da tavola, nocciolo, mandorlo e colture subtropicali nel Lazio; melograno, ciliegio e uva da vino nel Veneto; uva da vino, olivo, noce e nocciolo in Friuli. Il che comporta in molti casi la perdita di elevate professionalità acquisite nel tempo e la necessità di ripartire con colture spesso poco o per niente conosciute. Le stesse strutture logistiche di conservazione e lavorazione del kiwi possono subire delle forti ripercussioni per l’incertezza nei volumi conferiti.
Ricerca e sperimentazione
Gran parte della ricerca sulla moria del kiwi e le malattie da deperimento in generale è di matrice italiana, giapponese e turca. Le ragioni sono legate all’incidenza dei danni causati da questo fenomeno in questi paesi. In tutti i casi, i temi affrontati sono la gestione agronomica, in particolare quella idrica e i patogeni associati.
1. Aspetti agronomici
Tutte le sperimentazioni condotte in Italia, come quelle condotte in altri Paesi, considerano eccessi di acqua nel terreno come un fattore che riduce disponibilità di aria nel suolo e la formazione di nuovo capillizio radicale, rendendo la pianta incapace di far fronte alla domanda evapotraspirativa nei periodi caldi. Inoltre, si crea uno strato sotto-superficiale compatto, che impedisce alle radici di penetrare in profondità.
2. Aspetti patologici
Dalla comparsa della moria nel veronese, una volta verificata l’inconsistenza dell’ipotesi causale legata al solo eccesso di apporto irriguo, vari studi si sono concentrati sulla identificazione di agenti patogeni. Specie appartenenti al genere Phytophthora (P. citrophthora e P. cryptogea), Pythium e Cylindrocarpon sono state isolate da apparati radicali di piante con sintomi.
Altri studi hanno messo in evidenza il ruolo di specie appartenenti al genere Phytopythium (recentemente separato dal genere Pythium). Per alcuni isolati di Phytopythium vexans del Piemonte e del Friuli Venezia Giulia è stata anche dimostrata la patogenicità mediante infezione artificiale in ambiente controllato. Prove di patogenicità sono in corso anche per un isolato di P. chamaeyphon ottenuto in Friuli. Specie appartenenti ai generi Phytophthora, Phytopythium e Desarmillaria sono state isolate da campioni provenienti dal veronese e verificate come patogene di A. deliciosa e A. chinensis in infezione artificiale.
Suoli con eccesso idrico sarebbero condizioni favorevoli anche per lo sviluppo di batteri quali Clostridium bifermentans e C. subterminale in grado di causare malattia su actinidia.
3. Uso di portinnesti
Le prime esperienze sull’uso di portinnesti in actinidia sono state realizzate in Giappone, dove l’adozione come portinnesto di una specie nativa di quel Paese, Actinidia rufa, tollerante al ristagno e resistente ad alcuni patogeni come Pythium elicoides e P. vexans, sta dando risultati interessanti (Yano et al. 2011, Toi et al. 2018).
In Cina da qualche tempo sono in sperimentazione portinnesti appartenenti alle specie Actinidia valvata e A. macrosperma e i risultati sono incoraggianti (Li 2020 com pers). Come sempre quando si utilizzano specie diverse, problemi di disaffinità d'innesto o altri problemi agronomici possono presentarsi nel lungo periodo, per cui è necessaria molta cautela nel proporre questi portinnesti.
In Nuova Zelanda è in sperimentazione da parecchi anni il Bounty 71, un probabile semenzale di Actinidia macrosperma, noto in Italia dal 2017 anche con il nome di SAV1 (Ceradini Group, Verona). Questo portinnesto, nelle prime sperimentazioni neozelandesi, è risultato caratterizzato da tolleranza al cancro batterico e all’asfissia radicale (Thorpe et al. 2013). L’entusiasmo in Nuova Zelanda per questo portinnesto si è tuttavia affievolito dopo che le osservazioni sulle performances produttive delle varietà innestate (Hayward e Hort16A) hanno dato qualche delusione (Perle et al 2017). È possibile che la messa a punto di tecniche di gestione delle piante possa migliorare la situazione e risvegliare l’interesse per questo portinnesto. È certamente vero che Zespri l’ha adottato in maniera diffusa per i nuovi impianti di kiwi giallo (G3 o Gold3) sia in Nuova Zelanda che in Italia e in altri Paesi. Un altro portainnesto in valutazione in Italia è lo Z1 (VIP ZEDONE® Z1 VITROPLANT), un ibrido A. arguta x A. deliciosa di proprietà di Vitroplant (Cesena), considerato tollerante a Psa, mentre per un terzo portinnesto, il Green Angel dei Vivai Miretti (Cuneo), introdotto in sperimentazione ugualmente per la tolleranza a Psa, siamo alle prime sperimentazioni. L'Università di Udine, che dispone di un'ampia collezione di specie di Actinidia, ha avviato da poco una sperimentazione con selezioni appartenenti a diverse specie, come A. arguta e ibridi interspecifici, A. polygama, A. valvata, A. rufa, accanto ai portinnesti ricordati sopra.
Considerazioni conclusive
Leggi l'articolo completo su rivista di Frutticoltura n. 7/2020
Il problema deve essere risolto a monte, modificando le pratiche irrigue dell’actinidia, preparando meglio il terreno con drenaggi per far fronte a lunghi periodi di poggia, sempre più frequenti.
Soluzioni a base di trattamenti chimici sono impensabili, data la difficoltà di portare molecole chimiche fino alle radici, considerata la diversità delle specie potenzialmente dannose e considerata infine la possibile comparsa di ceppi resistenti dei patogeni nel breve periodo.