Il problema della classificazione commerciale delle varietà di pesche, lungi dall’essere risolto dalla normativa sulla qualità di mercato, si è aggravato in questi ultimi anni a causa:
- dell’enorme quantità di nuove varietà immesse nel sistema produttivo, giustificata dalla necessità di coprire nell’arco di cinque mesi (maggio–settembre) un flusso continuativo di varietà (in media una ogni dieci-quindici giorni) per ogni tipologia di prodotto; ciò significa un complesso numerico per le aree produttive molto qualificate, come ad esempio Emilia-Romagna, di almeno ottanta cultivar;
- nei programmi di “breeding” sta prevalendo l’idea di ottenere varietà molto simili fra loro, ma distinte per epoca di maturazione, in modo da creare una sequenza continuativa e temporale molto lunga;
- della diversificata preferenza dei consumatori nei confronti di tali tipologie di frutti: non si tratta più del dualismo pesca/nettarina o della polpa gialla in contrapposizione alla bianca, bensì dell’identificazione di altri caratteri distintivi, per lo più sensoriali, quali ad esempio: contenuto in zuccheri ed in acidi organici e, ancor più, rapporto fra gli uni e gli altri, da cui la categoria delle pesche dolci (ma con bassa acidità) oppure il tipo di polpa (croccante, fondente, deliquescente);
d.dello sviluppo di macchine selezionatrici/calibratrici capaci di discriminare i frutti in categorie sempre più complesse, grazie alle tecnologie ottiche ed automatizzate, inimmaginabili fino a pochi anni fa, quando la selezione si svolgeva solo per calibro e/o peso e colore. Ciò comporta, da un lato, la modifica e la modernizzazione degli apparati strumentali per la classificazione delle pesche, ma, dall’altro, la modifica anche del numero di segmenti caratterizzanti la classificazione commerciale finale, in genere piuttosto temuta dagli operatori perché, pur rendendo un servizio al consumatore, facilitandogli la scelta, rende più complessa ed onerosa la filiera distributiva e ne aumenta i costi di lavorazione nello stabilimento.
Dunque, come fare?
Premesso che è compito del miglioramento genetico aumentare la variabilità qualitativa delle pesche, cercando di ampliarla non solo in termini di epoche di maturazione, ma anche come “range” di valori parametrici dei caratteri che definiscono la qualità estetico–gustativa–sensoriale–merceologica del frutto, è evidente che spetta ad altri scegliere come aggiornare e modernizzare l’assetto produttivo, sollecitato ogni anno dal sistema vivaistico, con un’offerta varietale, in esclusiva, più ampia e con nuove tipologie di frutto.
Sul piano applicativo il correttivo del sistema dovrebbe consistere in un tempestivo, programmato “turnover” degli impianti, per impedire che varietà non più gradite continuino a riversarsi sui mercati, ostacolando l’affermazione di altre più adatte e gradite dai consumatori.
Nel contempo, però, occorre anche adeguare il sistema delle nomenclature commerciali delle varietà, per facilitarne il riconoscimento da parte degli acquirenti per lo più ignari del “breeding” che le ha generate ed evitare alle imprese produttive di creare troppi segmenti qualitativi (e comunque commerciali) per ognuna delle varietà entrate nella catena di lavorazione dei magazzini (Fideghelli, 2016).
È questo il pro blema dei problemi, perché, attualmente, nei migliori dei casi, ogni importante stabilimento di lavorazione di pesche registra un novero di varietà coltivate piuttosto nutrito (per esempio un centinaio) e numerosi sono anche i conferenti (per es. alcune centinaia); viene quindi spesso praticata l’aggregazione delle classi commerciali, tipologiche di prodotto, di più varietà, nel rispetto però dei parametri classificatori richiesti dalla normativa, con il concreto rischio che il nome identitario delle varietà scompaia o venga sostituito da altro più noto.
Si dovrebbe dire che è la pratica a dettare le possibili soluzioni, che non possono essere che compromissorie; in questi casi gli operatori vorrebbero utilizzare solo nomi di varietà note e taluni ne fanno impropriamente uso, estendendoli quale attribuzione a varietà molto simili di nuova introduzione, ma meno note o del tutto sconosciute anche se migliori per qualità sensoriali. La similarità dei caratteri è dunque il criterio da prendere in considerazione per cercare un metodo condiviso, una soluzione di compromesso accettata dagli operatori per renderne pratico l’uso, senza essere ingannevole verso i consumatori, accettata anche dagli editori aventi diritto alle esclusività brevettuali gravanti sulle varietà.
Come tutti sanno, sempre più spesso, sui mercati si vanno affermando i nomi dei “brand” commerciali (es. mela Marlene) e delle “private label” (che compaiono nell’etichettatura dei frutti) che sovrastano quelli dell’identità della cultivar, il cui nome dovrebbe invece comparire sulla confezione.
Leggi l’articolo completo su Frutticoltura n. 7-8/2016 L’Edicola di Frutticoltura