Il problema dell’inquinamento ambientale legato alla coltura della vite impegna ormai da molti anni la ricerca genetica internazionale, orientata ancora oggi a ridurre l’uso dei fitofarmaci attraverso la creazione di nuove varietà ottenute da incroci tra la vite europea e varie specie di vite non europee, dotate di resistenza alle malattie fungine.
Questa linea di indagine, perseguita anche in Italia da varie istituzioni sperimentali, ha portato nel 2015 all’iscrizione nel nostro Registro Varietale di 10 nuovi vitigni da vino a bacca bianca (B) e nera (N) che presentano caratteri di resistenza parziale o totale ad oidio e peronospora. Come è noto, i nuovi vitigni sono stati ottenuti dall’Università di Udine con la collaborazione dell’Istituto di Genomica Applicata e dei Vivai Cooperativi Rauscedo e hanno avuto origine da incroci complessi tra viti americane ed asiatiche, a loro volta incrociati con note varietà di origine francese.
A tre di essi i costitutori hanno attribuito nomi completamente nuovi (Fleurtai, B; Soreli, B; Julius, N), mentre agli altri sette è stato assegnato il nome del genitore europeo, ritenuto utile ai fini della diffusione della varietà, integrato da un aggettivo di fantasia (Cabernet Eidos, N; Cabernet Volos, N; Merlot Kanthus, N; Merlot Khorus, N; Sauvignon Kretos, B; Sauvignon Nepis, B; Sauvignon Rytos, B). I vitigni ibridi ottenuti dall’Università di Udine rappresentano un importante successo della ricerca italiana e, rispetto ad altri ibridi stranieri, stanno avendo una crescente diffusione nelle regioni in cui sono ammessi alla coltura (Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Veneto e Lombardia), dove le loro qualità produttive ed enologiche si stanno rivelando di buon livello.
La questione dei nomi
Considerato quanto sopra, è evidente che in termini generali i vitigni ibridi di ultima generazione possono essere un mezzo importante per rendere più sostenibile la viticoltura, purché usati in modo corretto e responsabile. Questo vale anche per le varietà selezionate dall’Università di Udine, per alcune delle quali esiste peraltro il problema della denominazione, poiché sono state omologate con i nomi aggettivati dei genitori europei Cabernet, Sauvignon e Merlot.
I pareri del mondo vitivinicolo sono infatti discordi sulla possibilità di battezzare un vitigno derivato da ibridazione interspecifica con il nome del genitore “noto”; il settore vivaistico è ovviamente favorevole per motivi commerciali, ma altre componenti della filiera sono contrarie per il pericolo di illudere i viticoltori che la varietà “resistente” si comporti come un “clone” della varietà “originale” per tutti gli altri caratteri.
La regola di usare nomi diversi per vitigni diversi è infatti importante per non confondere il significato della parola “varietà” con quello della parola “clone”; tale regola ha acquisito rilevanza dopo gli anni ’60, quando la ricerca viticola ha precisato che il clone è l’insieme di individui provenienti dalla propagazione agamica di una singola pianta di una specifica varietà, che ha subito una mutazione gemmaria fisiologica o morfologica, ma che è “indistinguibile” dalle piante non mutate della stessa varietà per tutti gli altri caratteri.
Tra “varietà” e “clone” non devono esserci equivoci:
- una varietà “nuova”, ottenuta per incrocio, ha caratteri propri e deve avere un nome proprio;
- il “clone”, che nasce all’interno di una varietà già esistente, ha invece il pieno diritto di mantenere il nome della varietà di origine, con l’aggiunta di una sigla o di un aggettivo che lo distingua da altri “cloni” della stessa varietà e dalla pianta madre non mutata.
Pareri discordanti, ma l’OIV si è espressa
Il problema è ben presente in Francia perché, oltre a quelli italiani, molti ibridi prodotti nel Centro-Nord Europa (Svizzera, Austria, Germania e Ungheria) hanno utilizzato nomi che richiamano i vitigni francesi usati nell’incrocio e tali nomi, oltre a creare equivoci, “disturbano” l’immagine “tradizionale” della viticoltura d’Oltralpe. A riprova di ciò, non è un caso che l’organismo intergovernativo OIV (“Organisation International de la Vigne et du Vin”), a cui nel mondo aderiscono 47 Paesi, abbia recentemente approvato su proposta francese la seguente risoluzione: “Per le nuove varietà, è necessario evitare l’uso di nomi che possono creare confusione con quelli di altre varietà note, specialmente quando queste sono già utilizzate nelle etichettature ufficialmente approvate di prodotti commerciali già esistenti”.
L’OIV ha quindi preso posizione contro l’uso dei nomi di varietà conosciute adottati per i nuovi vitigni, così come contro la possibilità di usare tali nomi per etichettare i vini da loro prodotti. L’intento dell’OIV, e della Francia in particolare, è che la risoluzione venga tradotta in un regolamento della Ue; ciò eviterebbe che nei registri viticoli dei Paesi Ue vengano iscritte altre accessioni ibride con il nome del genitore “nobile”.
I nomi dei vitigni nella storia e nel breeding
Al di là delle confusioni e delle polemiche, assegnare ad un vitigno da incrocio il nome di un genitore rappresenta una forzatura, poiché un individuo vegetale ottenuto incrociando due varietà di specie diverse o della stessa specie, ha sempre caratteristiche differenziate rispetto ai genitori e deve essere identificato da un nome diverso da quello dei genitori.
Questo principio lo si ritrova anche nella storia millenaria della viticoltura italiana, dove la selezione antropica ha sempre identificato con nomi propri le migliaia di vitigni di Vitis vinifera giunti fino a noi, che spesso hanno origini comuni (ad es. Sangiovese e Gaglioppo o Garganega e Trebbiano toscano), ma che si distinguono per i principali caratteri ampelografici e per quelli agronomici e tecnologici. Del resto anche nella viticoltura del primo ‘900 i nostri centri di ricerca (Scuola Enologica di Conegliano e varie Università), quelli francesi dell’INRA (Bordeaux, Montpellier, Colmar, ecc.) e quelli di Geisenheim e di Geilweilerhof in Germania, hanno sempre adottato nomi di fantasia per i vitigni da incrocio interspecifico realizzati dopo l’invasione della fillossera e delle malattie fungine.
Il successo commerciale viene dal nome del genitore
Al di là del fatto che i vitigni ibridi dell’Università di Udine sono dotati di buone caratteristiche agronomiche ed enologiche, è innegabile che al loro successo commerciale ha certamente contribuito il nome aggettivato del genitore francese. Nella pratica e nell’immaginario collettivo si accredita, infatti, molto spesso, come già ricordato, la convinzione che tali varietà siano “simili” a quelle da cui hanno preso il nome, con in più le caratteristiche di resistenza.
Si consolida quindi l’equivoco di ritenere che le varietà resistenti siano assimilabili a “cloni” dei vitigni europei da cui derivano, e per quanto molti tecnici e molti attori delle filiere vitivinicole nazionali e internazionali (ad es. l’OIV) abbiano avvertito il rischio di tale equivoco, la situazione non accenna a cambiare. Prova ne sia che nel marzo 2020 il “Gruppo di lavoro permanente per la protezione delle piante” del Mipaaf ha approvato la richiesta di iscrizione al nostro registro di altri quattro vitigni ibridi resistenti che hanno il nome aggettivato del genitore “nobile”: il Cabernet Blanc, B, già iscritto nel registro tedesco e richiesto dai Vivai Cooperativi Rauscedo; il Pinot Regina, N, di origine ungherese, richiesto dal Consorzio Innovazione Vite del Trentino; il Pinot Iskra, B e il Pinot Kors, N, ambedue ottenuti dall’Università di Udine. Tutte queste accessioni derivano anch’esse da incroci con le varietà francesi e sotto il profilo dell’immagine non arrecano danni alla viticoltura italiana, la cui notorietà non è legata ai vitigni francesi. Tuttavia, l’iscrizione di tali ibridi nel registro nazionale consolida una prassi che potrebbe avere un seguito e creare problemi anche ai nostri più importanti vitigni.
È infatti opportuno ricordare che in diversi centri di ricerca del nostro Paese sono ormai in dirittura d’arrivo altre accessioni resistenti, ottenute incrociando ibridi complessi americani e asiatici con alcune delle più note varietà italiane (Glera, Friulano, Lambruschi, Trebbiani, Sangiovese, Montepulciano, Aglianico, Primitivo, Nero d’Avola, ecc.), ormai considerate “autoctone” e rappresentative dei territori in cui sono diffuse da tempi immemorabili.
Utilizzare nomi di fantasia
E’ evidente che tutto ciò che viene fatto per ridurre l’impatto della viticoltura sull’ambiente è particolarmente apprezzabile, ed è auspicabile che incrociando le varietà italiane con ibridi complessi possano essere ottenute nuove accessioni resistenti, ma è augurabile che tali accessioni non vengano battezzate con nomi che richiamino i loro genitori “famosi”, ma con nomi di fantasia. A questo principio si è lodevolmente attenuta la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (Tn), che nell’ottobre 2020 ha iscritto al registro nazionale quattro nuove varietà resistenti alle malattie fungine (denominate Nermantis N, Termantis N, Charvir B e Valnosia B), derivanti da incroci tra le varietà trentine Teroldego e Nosiola e alcuni ibridi complessi (Merzling, Bianca, ecc.).
È infatti scientificamente corretto utilizzare nomi di fantasia per i nuovi vitigni resistenti, anche se provenienti da reincroci con viti italiane, in quanto ogni nuova accessione non può che essere “diversa” dalla varietà di V. vinifera da cui ha avuto origine, se non altro per il fatto che con i reincroci si riduce l’eterozigosi e la progenie che ne deriva può quindi manifestare caratteri recessivi non espressi nei vitigni di partenza. Inoltre, accanto alla resistenza, le nuove costituzioni potrebbero ereditare dai parentali americani e asiatici anche altre peculiarità (es. ridotte necessità termiche per la maturazione e forte tolleranza al gelo invernale), che le renderebbero appetibili e idonee alla coltura anche in Paesi del Nord Europa, vanificando così il valore territoriale legato ai loro nomi “italici”. D’altra parte, una volta che i nuovi vitigni siano stati battezzati ed omologati con un nome di fantasia, niente vieta, come giustamente ha fatto la FEM di San Michele all’Adige, che vengano esplicitamente dichiarati i genitori europei utilizzati negli incroci.
Nome della varietà d'origine solo per i veri cloni
Vi è poi l’importante problematica, di cui del resto si è già parlato, relativa al fatto che se i nuovi vitigni ibridi venissero battezzati con i nomi aggettivati dei genitori “conosciuti”, potrebbero essere scambiati per “cloni” delle varietà di cui richiamano il nome, invece che essere identificati come “varietà nuove”.
A questo proposito non si deve dimenticare che, accanto al miglioramento genetico per incrocio, la ricerca viticola nazionale e internazionale sta utilizzando dal 2014 le rivoluzionarie tecniche del “genoma editing” per indurre la resistenza alle malattie fungine nel patrimonio genetico di alcune importanti varietà di Vitis vinifera. L’aspetto fondamentale delle nuove tecniche è che il loro impiego permetterà di indurre tali mutazioni senza modificare nessuna delle altre caratteristiche varietali. La pianta mutata, che non sarà un OGM, si configurerà quindi come un vero clone, e come tale avrà il diritto di mantenere il nome della varietà di origine, con l’aggiunta di una sigla o di un aggettivo specifico di identificazione.
La questione non è da poco: nel giro di alcuni anni saranno infatti sicuramente disponibili anche in Italia accessioni di Vitis vinifera resistenti alle malattie fungine ottenute col “genoma editing”, quali, ad esempio, un “clone” della varietà Glera o un “clone” di Sangiovese, che a buon diritto potranno essere chiamati “Glera resistente” e “Sangiovese resistente”. Se nello stesso tempo saranno state ottenute e omologate come “Glera XY” o “Sangiovese YZ” una o più “varietà” resistenti, derivate da ibridi complessi americani e asiatici incrociati con Glera o Sangiovese, la confusione tra “cloni” e “varietà” sarà ancora maggiore. Ma forse allora sarà troppo tardi, e solo quando tutti i nodi saranno venuti al pettine le comunità scientifiche e tecniche internazionali cercheranno di trovare una soluzione condivisa.
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