La vite è, tra le colture arboree da frutto, quella con le caratteristiche di globalizzazione maggiormente estese, essendo presente nei Paesi che vanno dal clima temperato/temperato freddo a quelli dal clima sub-tropicale/tropicale. L’uva da tavola, con una produzione, nel 2018, di 28 milioni di t, rappresenta il 36% della produzione totale di uva (OIV, 2019) e la sua coltivazione è maggiormente concentrata nelle aree più temperate e calde rispetto all’uva da vino.
La produzione mondiale è crescente dall’inizio del secolo (+ 70%) e, seppure più lenta, la tendenza continua ad essere positiva.
I 10 principali Paesi produttori sono, nell’ordine:
- Cina,
- Turchia,
- India,
- Iran,
- Egitto,
- Uzbekistan,
- Italia,
- Stati Uniti,
- Brasile
- e Cile
che coprono il 70% della produzione mondiale, ma il maggior consumo pro-capite è nei Paesi del Medio-Oriente (Turkmenistan, Uzbekistan, Turchia, Tajikistan, Afghanistan, Iran) e dell’Europa sud-orientale (Albania, Macedonia, Armenia, Grecia), dove la coltivazione della vite è nata migliaia di anni fa e da dove provengono le prime uve apirene da cui sono derivate tutte le cultivar moderne.
L’aspetto più significativo della coltivazione dell’uva da tavola degli ultimi decenni è la progressiva sostituzione delle cultivar tradizionali con semi con nuove cultivar apirene, fenomeno favorito da due fatti: il crescente favore dei consumatori per le uve senza semi (in particolare nei Paesi occidentali) e la disponibilità di un grande numero di cultivar apirene sempre migliori in termini di produttività e caratteristiche organolettiche (colore, dimensione degli acini, aromi, croccantezza della polpa).
A proposito del successo crescente delle cv apirene, ricordo spesso un aneddoto che risale agli anni ’60, quando, giovane sperimentatore, in occasione di una delle prime missioni in California in visita al dr. John Weinberger, uno dei maggiori breeder della frutticoltura mondiale presso l’USDA di Fresno (pesche: Cardinal, Dixired, Fayette, Suncrest, Fairtime; nettarine: Independence, Flavortop, Fantasia, Fairlane; Susine: Friar, Fortune, Black Diamond, Black Gold; uve apirene: Flame Seedless, Autumn Seedless), gli chiesi come mai in California coltivassero quasi solo cv apirene (all’epoca avevano acino piccolo, necessità di trattamenti con gibberelline, produttività non elevata, poche cv disponibili) invece di varietà come Italia, Alphonse Lavallée, Regina (caratterizzate da acino grande, produttività elevata, variabilità di colori e sapori ). Come risposta mi invitò a presentare sulla tavola grappoli di uva apirena e grappoli di uva con semi e avrei constatato che le uve senza semi sarebbero finite prima delle migliori con semi; aveva pienamente ragione.
Nel mondo, ogni anno, vengono introdotte 20-25 nuove cultivar e il numero di apirene supera ormai quello delle cv con seme ed è in continuo aumento, fenomeno che crea un certo disorientamento tra i produttori per la difficoltà ad individuare quelle più adatte al proprio territorio e ai propri mercati di vendita (Zagaria et al., 2018 a). Le nuove cultivar, sia quelle costituite da istituzioni pubbliche, sia quelle di breeder privati, sono praticamente tutte brevettate e muovono un giro d’affari milionario. I programmi di miglioramento genetico da cui provengono le cultivar apirene maggiormente coltivate sono quelli americani (Zagaria et al., 2018b, 2019): USDA di Fresno e Università di Davis in California; i privati Sun World, International Fruit Genetics (IFG), Giumarra Family, Grape Genesis, sempre in California. Per il momento di limitata importanza, perché basati su specie di Vitis diverse da vinifera per costituire genotipi resistenti al freddo o alle principali malattie crittogamiche, sono i programmi delle Università di New York a Geneva e dell’Arkansas a Fayetteville (Stafne e Clark 2019), ma di grande interesse anche per il futuro della viticoltura da tavola europea che sta puntando con sempre maggiore convinzione su resistenze genetiche a peronospora e oidio.
Fuori dagli USA, importanti per la viticoltura da tavola sono il programma israeliano condotto dal Volcani Center dell’Agriculture Research Organization di Israele; il programma sugdafricano di ARC Infrutec-Nietvoobij di Stellenbosch; quello dell’INIA in Cile; quello dell’Embrapa di Conceisao e di Pelotas nello stato di Rio Grande do Sul in Brasile. Basati su genotipi di Vitis labrusca e ibridi labrusca x vinifera sono il programma giapponese presso la Fruit Tree Research Station di Akitsu e i programmi cinesi del Pomology Research Institute di Pechino e delle province di Shanxi e Shanghai.
In Europa, i programmi più importanti sono in Spagna, dove emerge quello di Itum-Imida della Murcia, frutto della cooperazione tra l’Istituto Murciano de Investigacion y Desarrollo Agrario y Alimentario e imprenditori privati della regione, cha ha già introdotto una quindicina di varietà e una prima cv resistente all’oidio (Tornel et al. 2017), in Moldavia, presso l’Istituto di Viticoltura e Enologia di Kishinau, e in Serbia presso l’Università di Novi Sad.
Un obiettivo comune e relativamente recente della maggior parte di questi programmi è l’introduzione di caratteri di resistenza genetica ai principali patogeni, in particolare peronospora e oidio, mutuati da specie di Vitis diverse da vinifera (Foria S. et al., 2018; AA.VV., 2018). Per resistenza a peronospora, oltre alla più nota e utilizzata Vitis labrusca, sono portatrici di geni (complessivamente una trentina) le specie V. amurensis, V. cinerea, V. lincecumii, V. piasezkii, V. riparia, V. rupestris, V. vinifera, Muscadinia rotundifolia. I geni di resistenza all’oidio (poco più di una decina) sono stati individuati nelle specie V. piasezkii, V. romanetii, V. rupestris, V. vinifera, Muscadinia rotundifolia. La disponibilità di geni di resistenza diversi per lo stesso carattere, da unire nello stesso genotipo attraverso un processo di piramidizzazione, è molto importante per ridurre il rischio di superamento della resistenza da parte del patogeno, constatato, per esempio, in alcune cv di melo portatrici del gene Vf di resistenza alla ticchiolatura trasferito dalla specie Malus floribunda. Tra gli aspetti positivi, non marginali, degli ibridi con vinifera di queste specie sono nuovi sapori ed aromi che arricchiscono l’offerta di innovazione alla base del successo commerciale.
La situazione italiana
La superficie ad uva da tavola in Italia, nel 2018, era di circa 47.000 ettari e la produzione di circa 10 milioni di quintali. Negli ultimi dieci anni la superficie coltivata è diminuita del 33-34%, mentre la produzione è diminuita meno, nell’ordine del 24-25%, grazie soprattutto all’abbandono delle situazioni marginali (agronomiche e imprenditoriali), ma anche alle innovazioni di tecnica colturale (nutrizione minerale, irrigazione, fitoregolatori). Nonostante il ridimensionamento delle superfici coltivate e il miglioramento delle rese produttive, il comparto è in difficoltà e fatica a reggere la concorrenza internazionale sui mercati di esportazione europei, un tempo dominati dalle uve italiane (Antonacci 2019, Colapietra 2015, Lunati 2019, Melillo et al. 2015).
I motivi delle difficoltà sono molteplici, ma la maggior parte degli analisti concorda sul fatto che i produttori del nostro Paese sono poco o nulla aggregati, con due conseguenze molto negative: mancanza di programmazione della produzione e debolezza nei confronti della GDO. I costi di produzione non competitivi con i nostri maggiori concorrenti e una storica farraginosità burocratica in un mondo che richiede velocità di cambiamenti e di decisioni contribuiscono alle difficoltà crescenti del comparto, che risente anche di un rinnovamento troppo lento.
Il Paese che maggiormente fa concorrenza all’Italia è, neanche a dirlo, la Spagna che ha saputo rinnovare la propria produzione molto più rapidamente di noi, puntando decisamente sulle uve apirene che oggi rappresentano circa l’80% della produzione iberica. A 50 anni di distanza dall’aneddoto di Weinberger, in Italia le uve apirene sono solo il 30% della produzione totale e le conseguenze le avvertono sempre più i nostri esportatori. Il ritardo della viticoltura italiana nell’adeguarsi agli standard internazionali è dovuto, principalmente, a due fattori: il grande successo dell’uva Italia a partire dagli anni ’60 e l’assenza di programmi nazionali di miglioramento genetico per l’apirenia. Pirovano (Istituto di Frutticoltura e di Elettrogenetica, 1951) aveva intuito la potenzialità delle uve apirene e aveva introdotto, già negli anni ’30, le due cultivar Maria Pirovano e Rodi ottenute dall’incrocio Zibibbo x Sultanina; purtroppo non ha insistito su quella linea.
Dopo anni di immobilismo, il miglioramento genetico italiano, che pure vanta un passato glorioso e di successo (basti pensare alla già citata Italia, a Michele Paglieri, a Matilde), da alcuni anni qualcosa di importante si sta muovendo grazie ad iniziative private e alla collaborazione tra istituzioni di ricerca e privati (www.agrisoil.it; Currò et al. 2013; Antonacci et al. 2014; Zagaria et al. 2018 b; Velasco 2019; Perniola et al. 2019; www.freshplaza.it/article/9141542).
Il Centro di ricerca di Viticoltura del Crea di Turi, sotto la direzione di D. Antonacci, cui di recente è subentrato R. Velasco e la società Agrisoil di Bisceglie, fondata da Stefano Somma che è anche il breeder, vantano i primi programmi di miglioramento genetico per la costituzione di cultivar apirene, con diversi genotipi già in commercio: Apulia, Luisa, Fiammetta (Agrisoil), Paula, Rubinia (Crea-VIT) o avviati alla commercializzazione: Appia, Barese, Barolum, Daunia, Egnatia, Japigia, Maula, Netium, Norba, Peucetia, Siris, Vigilarium (Crea-VIT). Più recentemente, Agrisoil e Agriproject hanno dato vita a Grape and Grape Group (S. Somma è sempre il breeder) e il Crea-VIT ha costituito il Consorzio NuVaUT con trenta operatori del settore, tra produttori e commercianti. Nel 2015 è nato un terzo importante programma di miglioramento genetico dalla collaborazione tra l’Università di Bari (tramite lo spin-off Sinagri), il Centro di Ricerca Sperimentazione e Formazione in Agricoltura “Basile Caramia” di Locorotondo (Ba) e venti imprenditori del settore di Puglia, Basilicata, Sicilia, Campania, Abruzzo, organizzato come rete di imprese IVC (Italian Variety Club) sotto la presidenza di Nicola Borracci.
L’ attività di breeding è coordinata da un comitato tecnico-scientifico di 5 esperti dell’Università (G. Bottalico, C. Montemurro), del CNR di Bari (F. La Notte), dello spin-off Sinagri (C. Pirolo), della società Agrimeca (L. Catalano) coordinati da C. Fideghelli. La rete IVC ha anche una collaborazione con il Dipartimento SPAA dell’Università di Catania (A. Gentile) e con l’Università di Novi Sad (D. Ivanisevic). Quest’ultima collaborazione riguarda, in particolare, la resistenza a peronospora e oidio, uno degli obiettivi iniziali di IVC e su cui l’Università di Novi Sad ha una lunga esperienza avendo già costituito due cultivar da tavola, con semi, resistenti (Frajla e Panonia) ed essendo partner di un gruppo internazionale per la costituzione di uve da vino resistenti che comprende anche l’Università di Udine.
Quest’ultima Università, forte dell’esperienza nel settore delle uve da vino (Testolin et al., 2016) e disponendo di diverse fonti di resistenza a peronospora e oidio, di recente ha avviato un proprio programma sull’uva da tavola con l’obiettivo di costituire cultivar con meno esigenze in trattamenti chimici, in linea con la necessità di una maggiore sostenibilità ambientale ed economica. Attualmente i programmi italiani sono basati su incroci inter-varietali e la selezione si giova dei marcatori molecolari soprattutto per il carattere dell’apirenia. In un futuro molto vicino, nonostante le riserve dell’Unione Europea che considera la tecnica del “Genome Editing” alla stregua degli organismi geneticamente modificati, sarà possibile modificare le migliori cultivar in commercio per singoli caratteri, eliminando quelli negativi o aggiungendone di positivi, prospettando la possibilità di ottenere uva Italia senza semi e resistente a peronospora e oidio (Antonacci, 2019)
La tabella 1 riporta alcune delle recenti cultivar apirene resistenti a oidio e/o peronospora (Ahmed et al. 2018; Leao et al.; 2019; Mejica 2018); due, le giapponesi Shine Muscat e Oriental Star, vengono riportate anche come tolleranti la muffa grigia (Yamada e Sato, 2016) per la resistenza della quale non sono noti geni specifici. Shine Muscat, con il nome di Sunshine Rose, si è molto diffusa in Cina dove è tra le cultivar più apprezzate. Una segnalazione particolare merita la cv Itumfifteen, prima cv apirena ottenuta in Europa resistente all’oidio; la politica del consorzio pubblico-privato spagnolo che l’ha costituita prevede che nell’emisfero Nord sia coltivata esclusivamente dai soci di Itum-Imida, mentre è concessa a produttori di Paesi dell’emisfero meridionale per un’intelligente politica di complementarietà commerciale.
A parte le caratteristiche pomologiche, dal punto di vista ambientale le più numerose sono le cultivar statunitensi dell’Università dell’Arkansas e le brasiliane del Rio Grande do Sul, selezionate per ambienti caldo-umidi, mentre le cultivar costituite a Geneva (Stato di New York, USA) sono particolarmente resistenti al freddo. Le cultivar spagnole e quelle giapponesi sono selezionate per climi temperati.
L’obiettivo principale dei programmi italiani è la costituzione di uve apirene di V. vinifera competitive con le cultivar brevettate importate da altri Paesi le cui royalty incidono sempre più sui costi di produzione, diminuendo la competitività dei nostri produttori, ma sarebbe un grave errore non perseguire, in prospettiva, la resistenza genetica ai principali parassiti. Da questo punto di vista sono molto interessanti per i programmi italiani i caratteri, portati dalle cv elencate, di resistenza alla peronospora e, soprattutto, all’oidio (patogeno più importante dove è coltivata l’uva da tavola in Italia), ma anche di nuovi aromi che possano diversificare l’offerta attuale e contribuire all’aumento dei consumi di un frutto di interesse, mondiale, strategico per l’agricoltura del nostro Mezzogiorno.