Siamo di fronte a un fenomeno ormai inevitabile, generato dai tempi: la vendita dei prodotti ortofrutticoli attraverso la GDO (supermercati, discount, ecc.) si espande progressivamente ogni anno, specialmente nelle grandi città, dove può raggiungere e superare il 60% del totale dei consumi. È naturale, quindi, che i grandi consorzi e gruppi di cooperative (AOP e OP) cerchino di diventare fornitori obbligati della Gdo, spesso, però, in condizioni di netta inferiorità contrattuale.
Tanti sono i fattori che pesano sulla negoziazione delle forniture: per esempio, le Gdo richiedono standard qualitativi oltre la media, con vincoli di certificazione, disciplinari di produzione più restrittivi di quelli richiesti dalla produzione integrata o della stessa biologica, calendari di consegna continuativi, confezionamenti differenziati, con conseguente segmentazione delle linee di lavorazione. Ma uno, in particolare, di cui ci occupiamo in questa nota, riguarda la cosiddetta “marca” imposta dal distributore, con o senza l’indicazione congiunta del marchio del gruppo fornitore.
In pratica, la Gdo, per ovvi motivi di fidelizzazione del cliente-consumatore, vuole creare valore commerciale al proprio “brand” (la cosiddetta marca del distributore) a scapito ovviamente di quello del produttore che, a buon diritto, vorrebbe che i consumatori conoscessero il proprio marchio o “brand” commerciale. Nelle grandi catene distributive (Coop, Conad, PAM, Carrefour, ecc.) c’è il timore che la compresenza di due marchi nelle stesse confezioni confonda il consumatore quando non sia reso obbligato da un abbinamento esclusivo, per evitare la concorrenza delle altre catene distributive.
Il confezionamento e l’etichettatura sulle confezioni fatte proprie dalle Gdo (vassoi, cestini, sacchetti, alveolati, contenitori a peso, ecc.) sono in genere ben curati e accattivanti. Vengono rispettate le norme commerciali, anzi aggiunti elementi conoscitivi del prodotto e, talvolta, anche viene fatta la narrativa del rapporto tra frutta e territorio, si citano risvolti alimentari e nutrizionali-salutistici. Ma poi si fatica a trovare l’indicazione a stampa del produttore, anche se trattasi di gande consorzio o gruppo cooperativo, in genere relegato in un angolino della confezione, spesso non comprensibile. Naturalmente, questo non riguarda un’altra grande quota di ortofrutta, quella “sciolta”, confezionata dai produttori in plateaux o cassette, che va ai mercati generali e altri canali distributivi per negozi, punti vendita, inclusi ovviamente i supermercati, che la inseriscono nel movimento delle proprie linee distributive, suddivise per specialità, prezzi “premium”, primo prezzo, prodotto sfuso, ecc., o fra tutti gli altri nelle catene dei soli prodotti discount.
Vi sono anche casi opposti, quando la marca del produttore è molto nota (per esempio Melinda, Marlene, Alma Verde Bio) nel qual caso è la stessa Gdo a cercare di salvaguardare la presenza e la visibilità della marca del produttore (che i consumatori già ben conoscono), magari anche presentandoli in scaffalature ad essi dedicate. Allora dove sta il problema? È nota la strutturale debolezza dei produttori di fronte alla Gdo e la parziale o totale deresponsabilizzazione verso il produttore che la “marca del distributore” pratica in molti casi per impedire, ai produttori stessi, di farsi conoscere ed emergere nei mercati, negando loro l’acquisizione diretta del plusvalore del prodotto quando questo abbia caratteristiche proprie come l’alto livello qualitativo o la provenienza da una zona tipica, magari tutelata da IGP o DOP.
Come trovare una soluzione o un giusto equilibrio fra i diritti di entrambe le parti, ciascuna delle quali vorrebbe farsi carico delle proprie responsabilità? Si tenga presente che, indipendentemente dal soggetto che figura in etichetta, le attuali tendenze mercantili premiano le denominazioni che conquistano la fiducia del consumatore, anche sotto una forte spinta promozionale, favorendone il riconoscimento, l’apprezzamento per la qualità, la garanzia per la sicurezza alimentare e, magari, un plus salutistico e confortante sul piano etico, morale, ecologico (specialmente se ottenuto con metodo biologico). Ciò significa, di fatto, che il nome del brand e la marca sono avvantaggiati rispetto a tutte le altre indicazioni, compreso il nome genetico e il marchio commerciale delle varietà o quello del produttore e della stessa cooperativa o consorzio. Basta guardare a quanto è avvenuto nel settore enologico per constatare la pluralità dei comportamenti sul lato commerciale, dove vince il più bravo a fare marketing, cercando nuovi mercati e opportunità.
Si è dunque voluto interpellare alcuni dei protagonisti del rapporto fra produzione e distribuzione, cogliendo l’occasione dell’incontro (quindicesimo della serie) svoltosi a Bologna nel gennaio 2019 sulla “Marca del distributore” dal titolo: “Sicurezza, tracciabilità, qualità e ruolo della distribuzione moderna nel settore agroalimentare distributivo del fresco” (Rapporto Nomisma). Quello di Bologna è un appuntamento annuale, una sorta di “network” internazionale con settecentocinquanta aziende partecipanti, che passa dalla filiera produttiva e distributiva per analizzare i trend del mercato e scoprirne le strategie in atto.
I pareri della GDO
Abbiamo iniziato da Coop Italia, titolare del marchio “Origine” e dei due brand “Fior Fiore” e “Vivi Verde” per le produzioni di alta gamma e l’offerta biologica. Afferma Claudio Mazzini, responsabile ortofrutta e freschissimi: “Il nostro marchio vuole convincere il consumatore, oltre che sui requisiti di alta qualità, su trasparenza dell’intera filiera di produzione, controllo delle materie prime e cura di tutti i passaggi, anche sul piano etico. La quota di mercato della nostra Mdd (marca del distributore; ndr) è salita attorno al 23% per l’ortofrutta, ma ora si fatica ad andare oltre questa, che resta inferiore a quella di altri settori merceologici. Occorre mettersi nei panni del consumatore, capire i suoi bisogni, per guadagnare la sua fiducia, evitando assortimenti ridondanti, convincendolo che si tratta di prodotti portatori di valori sani”.
Francesco Avanzini, direttore generale, afferma che: “Anche per Conad l’Mdd vale ormai un terzo delle vendite e la sua evoluzione serve ad interpretare gli stili di vita dei nostri clienti (oltre nove milioni di famiglie); la marca del distributore si evolve di pari passo e interpreta i trend di consumo prima dell’industria di marca, cioè del produttore. Bisogna portare qualità dove le persone vivono”. Per G. Pietro Corfara, di Pam Panorama, “bisogna fare anzitutto una netta distinzione di ruoli tra chi distribuisce e chi produce. Della partnership con le catene distributive possono beneficiare gli imprenditori che non hanno la possibilità di andare all’estero verso nuovi mercati, per dimensioni, fatturati, risorse. Il campanilismo in questo ambito non fa bene”.
Gli fa eco Stanislao Fabbrino, presidente-AD di Fruttagel, azienda di trasformazione industriale di Alfonsine (Ra) che, quale produttrice di ortofrutticoli trasformati dei propri soci, è anche “co-paker” di varie Gdo, che ha affermato: “puntiamo su filiera corta, innovazione e sostenibilità. La nostra strategia di abbinamento della nostra marca con quella delle catene distributive garantisce eticità, affidabilità e qualità nel confronto dei clienti. La materia prima conferita dai soci è pari al 68,3% (nel caso dei surgelati sale al 79%). Ogni anno ci sottoponiamo a 400.000 analisi interne e 3.000 analisi esterne. Un “panel group” aziendale di giudici sensoriali garantisce la qualità costante dei prodotti, mentre per R&D (ricerca e sviluppo) disponiamo di due team per la ricerca di nuovi mercati, il primo per i prodotti a lunga conservazione (succhi, nettari, derivati pomodoro, ecc.) e l’altro per ortaggi e frutta surgelata.
I pareri dei produttori
Davide Vernocchi, Presidente di Apo Conerpo e coordinatore del settore ortofrutticolo dell’Alleanza delle Cooperative Agroalimentari, ha affermato: “credo che il tema che si pone sia quanto mai complesso e articolato. Il peso della Gdo italiana in quello che è il mercato dell’ortofrutta nazionale arriva a circa il 60%, contro l’80-90% che si rileva nei Paesi del Nord Europa e, ancora, se in quei Paesi il numero delle catene non supera la decina di sigle, in Italia questo numero deve essere moltiplicato 5-6 volte, con un “cannibalismo” tra le stesse che spesso va oltre ogni raziocinio in termini di distribuzione territoriale. Dall’altro, nel mondo della produzione la frammentazione dell’offerta ortofrutticola è tale per cui solo pochi gruppi hanno una dimensione economico-produttiva tale da affermare una marca nel vero senso del termine, con investimenti dedicati a campagne pubblicitarie importanti, rendendo il prodotto ricercato dal consumatore comune. Diventa così più facile per chi acquista la nostra frutta imporre la propria marca, con, al limite, dei riferimenti territoriali che li aiuta a distinguersi dalla norma e che gli permette di non legarsi ad un unico fornitore”.
Gabriele Ferri, direttore generale di Naturitalia di Bologna, ha affermato: “il tema è sicuramente centrale ora e lo è sia per il produttore, sia per il consumatore. Da un punto di vista strettamente commerciale non dovrebbero esserci dubbi: il produttore è responsabile di ciò che produce e ha come primario obiettivo quello di personalizzare il proprio prodotto per renderlo riconoscibile al consumatore, al fine di costruire con lui un rapporto chiaro, trasparente e di fiducia. Il consumatore è parte attiva del sistema perché è il soggetto che, con le sue scelte, fa vivere e crescere il sistema. La realtà però è molto diversa da quella sopradescritta e ci sono notevoli distorsioni. La realtà che viviamo è che la Gdo è sempre più aggregata e organizzata e in crescente competizione per conquistare la fiducia del consumatore fidelizzandolo: la marca del distributore è lo strumento su cui si gioca questa competizione. È vero che il produttore è il reale detentore del prodotto alimentare, ma l’atavica divisione del mondo produttivo, che sembra continuare a non accorgersi della realtà, rende il produttore una semplice comparsa e non il vero protagonista di tutto il sistema, con il rischio di essere sostituito in qualsiasi momento”.
Un monito per i produttori ortofrutticoli
La tendenza dei mercati indica nella “marca del distributore” un investimento identitario per le Gdo di crescente importanza, per fidelizzare il consumatore e guadagnare maggior spazio commerciale. Il mondo della produzione non può non subire una scelta imposta dal sistema di consumi, ma non può rimanere semplice spettatore perché in ogni caso deve provvedere alla fornitura della merce per le Gdo. Nella triangolazione tra prezzo, qualità e sicurezza occorre giungere a un punto di equilibrio per arrivare a crescere insieme.
Quando nacquero, le “private label” (una decina di anni fa le Mdd erano così denominate) erano sinonimo di prezzi bassi, per prodotti popolari, di qualità standardizzata. Ora la situazione è fortemente cambiata perché la Mdd cammina verso la qualità più alta, con prezzi “premium”, per distinguerla dalla categoria intermedia (“mainstream”) fino al primo prezzo (qualità di massa). Questa distinzione può far comodo alle organizzazioni dei produttori che, in condizioni operative di crescenti difficoltà (vedi eventi climatici avversi, riscaldamento globale, problemi sanitari, difetti di pezzatura, ecc.) possono avere interesse a differenziare la qualità dei conferimenti per non perdere valore commerciale. Altro vantaggio è dato dalla massa dei controlli di filiera eseguiti dalle Gdo, che sono una garanzia, soprattutto per i consumatori, anche, per esempio, nel campo dei residui di agrofarmaci o per evitare frodi nel biologico.
Si spiegano in tal modo le preferenze dei consumatori che ha rilevato una recente indagine di Nomisma: ben il 55% degli acquirenti interpellati ha ritenuto conveniente comprare prodotti Mdd per il rapporto qualità-prezzo e il 27% per maggiori garanzie sulle caratteristiche e sui metodi di produzione. Cioè si fidano di più; nella media, il 49% dei consumatori ha acquistato in modo “consapevole” frutta e verdura con marca Gdo.
Altro aspetto positivo, secondo l’indagine Nomisma, è rappresentato anche dall’abbinamento dei marchi, cioè dei “co-brand” fra produttore e distributore; perché il primo diventa “co-paker”, che significa maggiori assortimenti, nuove referenze, packaging differenziato per singoli prodotti, etichettatura, tutti costi aggiuntivi che graverebbero sul fornitore. Il piccolo produttore “conta” se si associa, ma la sua OP, a sua volta, conta se si avvale di un potente organismo distributore organizzato.
I consumatori, in definitiva, con la Mdd sarebbero più tutelati, sia nel campo della qualità, sia dei controlli, sia dell’informativa-marketing. Proprio il marketing operato dal distributore si presta a critiche, perché la filiera diventa interamente controllata dal soggetto distributore. Possono nascere rischi su provenienza-origine della merce, sugli accertamenti dei metodi di coltivazione, sulla stessa etica e sulle regole di sostenibilità realizzate dai produttori. È su questi aspetti che occorre operare, per trovare forme di contrattuali di partnership di piena soddisfazione per tutti.
La marca del distributore annulla quella del produttore?
Lotta fra forze apparentemente diseguali e impari, ma in realtà gli uni hanno bisogno degli altri. Produttori più forti e organizzati devono dialogare con una distribuzione sempre più capillare e differenziata nella vendita dei prodotti ortofrutticoli. Marche, brand e co-brand: cosa privilegiare nel prossimo futuro?