Il costante aumento delle concentrazioni di anidride carbonica (CO2) e di altri gas nella nostra atmosfera è un fatto oramai accertato. La causa di questo fenomeno è da ricercare nella rapida e costante crescita, anno dopo anno, delle emissioni globali di CO2 (soprattutto quelle derivate da combustibili fossili) e di altri gas ad effetto serra (GHGs), come il metano (CH4) e gli ossidi di azoto (NOx), che si è verificata soprattutto a partire dagli anni ´50. Per uniformare il diverso potere che i principali gas serra possiedono nell’alterare il clima, riscaldando l’atmosfera, si deve introdurre il concetto di GWP (global warming potential o potenziale di riscaldamento globale), che viene misurato ricorrendo al termine CO2 equivalenti (CO2-eq) e che verrà impiegato anche nel presente testo. Le emissioni globali di CO2-eq (circa 39 Gt/anno, ossia miliardi di tonnellate) sono compensate solo in parte (53-54%) dall’abilità di alcuni ecosistemi di sottrarre parte della CO2 emessa in atmosfera, mentre la frazione rimanente causa una crescita della concentrazione della CO2 atmosferica di circa 2.4 ppm (parti per milione) per anno. Mentre stiamo scrivendo, la concentrazione media della CO2 è di circa 415 ppm, concentrazione mai raggiunta prima nei precedenti 800 mila anni di storia analizzati dalla ricerca scientifica.
L’aumento dei gas serra è la causa del cosiddetto cambiamento climatico, le cui principali conseguenze sono l’aumento della temperatura media dell’atmosfera, delle minime e delle massime termiche (incluso le ondate di calore in estate), e la modifica del regime pluviometrico, con aumento della frequenza ed intensità di eventi temporaleschi violenti, da un lato, e la presenza di prolungati e severi periodi di siccità, dall’altro. Rispetto alla media del periodo 1961-1990, la temperatura media delle terre emerse del pianeta è infatti aumentata di almeno un grado.
In base ai modelli previsionali, in assenza di una rapida e drastica riduzione delle emissioni nette di gas serra, la temperatura dell’atmosfera potrà aumentare alla fine del secolo anche di 3 gradi rispetto al 1990, anno di riferimento negli accordi internazionali sul clima (come, ad esempio, l’Accordo di Parigi). Per limitare tale aumento entro la soglia di 1.5 °C (questo, secondo gli scienziati, il limite per evitare una serie di effetti catastrofici) occorre quindi fin da subito adottare misure in grado di ridurre le emissioni di gas serra ed invertire una tendenza che invece, come abbiamo scritto sopra, è ancora in aumento.
Il contributo dei fruttiferi alle emissioni di gas serra
Ci si deve chiedere da quali attività antropiche derivino le principali emissioni di gas serra. I sistemi agrari per la produzione vegetale e animale, e il cambiamento di uso del suolo che talvolta avviene, sono responsabili a livello mondiale per circa il 21% delle emissioni complessive di gas serra, mentre nella sola Europa esse rappresentano circa il 10%.
Le emissioni di gas serra, imputabili in parte alla CO2 ed in parte al metano e al protossido di azoto emessi dal suolo agrario e dagli allevamenti animali, sono relativamente stabili in Europa, mentre mostrano una tendenza in continuo aumento a livello globale. Se si estende l’analisi all’intera produzione alimentare e si include nei calcoli anche la trasformazione, il trasporto, la conservazione e la gestione degli scarti, il contributo dell’intero settore agroalimentare alle emissioni globali può raggiungere valori prossimi al 37% a scala globale. Non vi è dubbio, pertanto, che l’agricoltura può e deve fornire il proprio contributo alla mitigazione del cambiamento climatico attraverso pratiche maggiormente virtuose.
La produzione mondiale di frutta, secondo stime della Fao, si aggira su 868 milioni di tonnellate per anno, di cui poco più di 80 milioni sono rappresentate dalle mele, coltivate su circa 5 milioni di ha (intorno allo 0.3-0.4% della superficie agricola mondiale, Faostat, 2021). L´impronta carbonica (C footprint) della mela generata durante la sola fase di coltivazione oscilla in genere tra 50 e 100 g CO2-eq per kg di mele in molti contesti produttivi, ma fino a 800 g CO2-eq per la coltivazione in Cina che si stima produca da sola circa il 50% delle mele. Sulla base di questi dati si può ipotizzare che la produzione mondiale delle mele generi emissioni annue pari a circa 0.034-0.036 Gt di CO2-eq.
L’impronta carbonica della mela durante il ciclo di coltivazione
Diversi autori hanno stimato le emissioni di CO2-eq legate all’impiego diretto (es. gasolio) ed indiretto (es. pali di cemento, plastiche, fertilizzanti) di combustibili fossili e le emissioni di protossido di azoto dal suolo nelle diverse fasi di coltivazione del meleto.
L’approccio utilizzato nella maggior parte degli studi ha contabilizzato, ai fini del calcolo dell’impronta carbonica, la sola fase di piena produzione del meleto.
La metodologia impiegata considera il “ciclo di vita” di tutti i materiali e i processi impiegati nella coltivazione (Life Cycle Assessment) ed attribuisce ad essi una quantità di CO2-eq. La somma di tutte le emissioni viene poi riferita all’unità di prodotto. L’impronta carbonica della mela, ovvero il suo potenziale di riscaldamento globale (GWP), ci indica quindi la quantità di gas serra che vengono emessi in atmosfera nella produzione di 1 kg di mele. A seconda del perimetro dello studio, la C-footprint può riferirsi alla sola fase di produzione in campo (cradle to gate), alla fase di confezionamento, packaging e/o trasporto della mela ai mercati, o valutare complessivamente tutta la filiera, dal campo al mercato (cradle to market).
Oltre ad una precisa definizione dei confini dello studio, ad influire in maniera sensibile sui risultati dell’analisi sono la modellizzazione del ciclo produttivo e la numerosità dei dati sperimentali raccolti. Per il settore frutticolo, la maggior parte dei dati in letteratura fa riferimento a poche aziende o pratiche standard di gestione che raramente considerano le fasi di impianto ed espianto del frutteto e rappresentano pertanto delle stime. Presso la Libera Università di Bolzano questo tema viene affrontato con il supporto dell’Associazione italiana di produttori di mele (Assomela) da circa un decennio. Recentemente abbiamo utilizzato una diversa metodologia di raccolta dei dati, direttamente dai quaderni di campagna di soci delle cooperative altoatesine Vip e Vog, rappresentativi di una superficie di oltre 5500 ha di meleto. La maggior parte dei dati si riferisce al periodo 2013-2019, mentre quelli relativi ai concimi e principi attivi fanno riferimento al solo 2019. Sono stati registrati i dati relativi alle operazioni colturali e ai materiali impiegati sia in aziende a produzione integrata sia in quelle biologiche, in cui erano presenti nuovi impianti, espianti e meleti di diverse età.
Le emissioni maggiori nella fase di impianto sono legate ai pali di cemento (che si considerano comunque utilizzabili su due cicli produttivi), ai fili di ferro e alle reti antigrandine. L’espianto invece incide in misura nettamente minore rispetto all’impianto (12%), trattandosi quasi esclusivamente di gasolio per l’esecuzione dei lavori. Nella gestione ordinaria del frutteto secondo protocollo di agricoltura integrata, quattro sono invece le operazioni colturali che incidono maggiormente sull’impronta carbonica: la concimazione (28%), i trattamenti antiparassitari (21%), la raccolta e il trasporto delle mele al magazzino (20%) e l’ammortamento dei macchinari (19%). Il riferimento delle emissioni all’unità di prodotto (il kg di mela), è importante perché permette di comparare l’impatto della mela ottenuta in diverse zone di produzione o con diversi modelli produttivi.
Diversi studi, condotti anche dal nostro gruppo di ricerca, hanno permesso di collocare l’impronta carbonica della mela del Trentino-Alto Adige in un intervallo compreso tra i 40 e i 60 g CO2 per kg di mele. Anche il protocollo di produzione influisce sull’impronta carbonica finale della mela e in particolare sull’incidenza percentuale di determinate pratiche rispetto ad altre. L’utilizzo di fertilizzanti chimici di sintesi spesso impiegati nell’agricoltura integrata produce un maggiore impatto in termini di emissioni di CO2 rispetto all’uso di fertilizzanti organici. D’altro canto, la gestione del suolo con interventi meccanici e la maggior frequenza di interventi antiparassitari necessari in una conduzione secondo metodo biologico, causano una maggiore impronta carbonica di queste fasi rispetto alla produzione integrata. L’agricoltura biologica, sembra tuttavia attualmente penalizzata dalle minori produzioni ettariali.
Impronta carbonica della mela prodotta in Alto Adige secondo
il protocollo integrato e biologico ed espressa per unità di superficie (kg CO2-eq anno-1 ha-1) e di prodotto (kg CO2-eq kg-1)
Coltivazione della mela | kg CO2-eq anno-1 ha-1 | Produzione media | g CO2-eq kg-1 mela | |||
(kg ha-1) | ||||||
Int | Bio | Int | Bio | Int | Bio | |
Impianto | 643 | 643 | 57.600 | 50.000 | 11,2 | 12,9 |
Macchinari | 487 | 500 | 8,5 | 10 | ||
Produzione | 2.050 | 1.809 | 35,6 | 36,2 | ||
Espianto | 77 | 77 | 1,3 | 1,5 | ||
Totale | 3.257 | 3.029 | 56,6 | 60,6 |
Mitigazione delle emissioni nel meleto
Una particolarità legata al calcolo dell’impronta carbonica dei prodotti agricoli, tra cui la frutta, risiede nel fatto che la fotosintesi delle piante, da un lato, e la respirazione sia delle piante che degli organismi del suolo, dall’altro, determinano elevati flussi di CO2 sia in entrata che in uscita dall´agro-ecosistema, che quindi si vanno a sommare o a sottrarre all’impronta carbonica derivante dalla gestione del meleto.
Una ricerca condotta dal nostro gruppo di ricerca e co-finanziata da Assomela, ha permesso di quantificare questi flussi e determinare su base annuale l´ammontare del carbonio che rimane nel sistema per effetto dell´attività fotosintetica, dopo che sono stati considerati i flussi di carbonio che avvengono sia in seguito ai processi respirativi che alla raccolta della frutta: al termine del 7° anno di monitoraggio, il frutteto aveva incorporato 5.7 t C ha-1, pari a circa 3 t CO2 ha-1 anno-1.
Per capire la natura e la durata di questo sequestro di carbonio è doveroso chiedersi dove è stato stoccato il carbonio? Studi di allocazione della biomassa ci aiutano a rispondere a questa domanda.
Gli scambi di carbonio a livello di ecosistema sono molto ampi, e quello che rimane è solo una minima parte. Alcuni degli organi che crescono durante la stagione o sono asportati (es. i frutti) oppure ritornano al suolo ed alimentano il ciclo del detrito (es. foglie, legno di potatura, radici fini), ritornando in parte in atmosfera, con tempistiche diverse, sotto forma di CO2 emessa dalla respirazione. La frazione di carbonio che rimane per più anni è quella che determina l’aumento di dimensioni delle strutture legnose permanenti del frutteto (per circa l´85%), mentre una frazione minore si stima possa corrispondere ad un aumento di sostanza organica stabile nel suolo.
In sintesi, i flussi annuali di CO2 derivanti dalla fotosintesi e dalla respirazione degli organismi nel meleto consentono di compensare gran parte delle emissioni di CO2 derivanti dalla sua gestione. Tuttavia, una frazione significativa del C fissato corrisponde al C accumulato nel fusto e nelle radici grosse. È pertanto evidente che dal loro destino finale dipende l’abilità del sistema di mitigare le emissioni di CO2; se fusto e radici venissero sottoposti a combustione, il C fissato ritornerebbe subito in atmosfera.
Alcune proposte per rendere la mela C-neutrale
Il continuo aumento delle emissioni di gas serra e i suoi effetti sul clima, sempre più evidenti per intensità e frequenza, impongono una riconversione rapida dell’intero sistema produttivo per annullare le emissioni nette di gas serra nel minor tempo possibile e comunque entro il 2050.
Il settore agricolo e la frutticoltura in particolare hanno la possibilità di raggiungere questo obiettivo agendo su due fronti: da un lato riducendo le emissioni che si verificano durante il ciclo produttivo, dall’altro incrementando la capacità del frutteto di sottrarre CO2 dall’atmosfera e/o stoccarlo in maniera stabile nei diversi comparti dell’agroecosistema.
Possibili soluzioni per ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera e aumentare l’assorbimento/stoccaggio di CO2 di lungo periodo nel sistema frutteto
Azioni proposte | Pro | Contro |
Uso fertilizzanti organici | Minori emissioni legate alla sintesi del fertilizzante; economia circolare | Reperibilità; efficacia; costo di distribuzione |
Utilizzo varietà tolleranti a patogeni e parassiti | Riduzioni interventi fitosanitari ed impatti correlati | Risposta del mercato alle varietà disponibili |
Limitazione alle lavorazioni meccaniche del suolo | Riduzione emissioni da macchinari; riduzione flussi di respirazione del suolo | Riorganizzazione della gestione colturale; alternative non sempre possibili |
Utilizzo mezzi a trazione elettrica | Riduzione consumi combustibili fossili (emissioni dirette) | Ridotta disponibilità |
Utilizzo di materiali meno impattanti per l’impianto (legno, fibre naturali?) | Minore contributo dei materiali alla C-footprint; possibile riciclo dei materiali | Costo; deterioramento, limitata disponibilità |
Inclusione di animali da allevamento nel frutteto (Agroforestry) | Riduzione emissioni da pratiche meccaniche/diserbo | Compatibilità animali-operazioni colturali, limitazioni climatiche; costi di gestione |
Trattandosi di pratiche che vanno a modificare l’attuale assetto produttivo e/o ad introdurre nuove operazioni nel ciclo produttivo, è evidente che il successo di una loro applicazione su larga scala deve fare necessariamente i conti anche con la sostenibilità economica dell’intervento. Laddove, quindi, i cambiamenti introdotti si dimostrino peggiorativi sul fronte del tornaconto economico per l’impresa, sarà opportuno prevedere idonei strumenti atti a compensare i mancati introiti, in modo che il raggiungimento degli ambiziosi traguardi sul fronte ambientale possa avvenire senza pregiudicare il futuro delle aziende frutticole.
bell’articolo grazie