Il ciliegio riveste un ruolo del tutto particolare in frutticoltura, sia per il breve periodo di commercializzazione, sia per l’estrema variabilità di situazioni nelle quali si realizza la produzione, sia ancora per il tasso di rischio tendenzialmente elevato in conseguenza della variabilità stagionale e degli elevati impegni finanziari nella formazione degli impianti. Tuttavia, grazie a quotazioni di mercato molto interessanti registratesi nelle ultime campagne (ottenute soprattutto da varietà di nuova introduzione), potrebbe costituire una concreta alternativa per i frutticoltori italiani nel momento della sostituzione di specie frutticole non più sostenibili economicamente.
Per meglio comprenderne le opportunità è necessario che gli imprenditori abbiano una piena consapevolezza circa l’attuale situazione produttiva a livello globale, poiché le dinamiche economico-commerciali, sia dal lato dell’offerta, sia da quello della domanda, interagiscono anche sul comportamento dei mercati locali di riferimento che, come è noto, in Italia assumono una notevole importanza per questa specie.
Superfici e produzioni nel mondo
Il ciliegio è diffuso nel mondo su quasi 660.000 ha: circa 440.000 sono investiti a ciliegio dolce e 220.000 a ciliegio acido. In particolare, il ciliegio dolce mostra un’evoluzione positiva, benché rappresenti solo il 2,3% in termini di superfici complessivamente investite a specie arboree da frutto temperate (ad esclusione di agrumi e uva da tavola). Nel decennio 2007-16 ha infatti evidenziato un consistente trend di crescita (+60.000 ha), con un tasso annuo di incremento maggiore rispetto a quello manifestato dalle principali specie da frutto, essendo risultato secondo solo all’actinidia e al kaki. Il ciliegio acido da parte sua ha registrato andamenti oscillanti dei propri investimenti, ma, nel complesso, può dirsi in leggera crescita.
Buona parte degli investimenti si concentra nel continente europeo: nello specifico, poco più del 40% delle superfici coltivate a ciliegio dolce e i 2/3 di quelle a ciliegio acido. In particolare, per il ciliegio dolce si rileva una dinamica flettente, con oltre 16.000 ha persi in dieci anni, mentre, al contrario, in Asia e in America la specie è in progressivo aumento (+40% nel primo caso e +43% nel secondo), con investimenti che toccano rispettivamente 190.000 e 60.000 ha. In detti areali si individuano i due Paesi con le maggiori estensioni al mondo, nell’ordine la Turchia, con 85.000 ha e gli Stati Uniti, con 37.000. Per il ciliegio acido le superfici sono in tendenziale crescita nei continenti asiatico e americano e sostanzialmente stabili nel resto del mondo.
Anche nei Paesi dell’Unione europea, in cui la coltura del ciliegio copre una superficie di circa 175.000 ha (di cui 123.000 dolci e 52.000 acide), entrambe le tipologie sono in flessione, con diminuzioni calcolabili nell’ultimo decennio in circa 2.500 ha nel primo caso e 10.000 nel secondo. Più in dettaglio, il ciliegio dolce è distribuito piuttosto uniformemente nell’ambito dell’Ue, anche se tende a prevalere nell’area mediterranea: in particolare, si registrano circa 30.000 ha in Italia, 25.000 in Spagna, 14.000 in Grecia e poco più di 8.000 in Francia. Di un certo rilievo sono pure le superfici presenti in Bulgaria (8.400 ha) e Polonia (9.600 ha). Il ciliegio acido è invece di interesse per un limitato numero di Paesi, tra i quali vanno segnalati ancora Polonia (33.000 ha) e Ungheria (13.500 ha).
In merito alla produzione mondiale, limitando l’analisi al solo ciliegio dolce, i dati disponibili mettono in risalto le medesime dinamiche degli investimenti, ovvero una tendenziale crescita, benché più altalenante, con raccolti che nel 2016 hanno superato i 2,3 Ml t. Attualmente concorrono all’offerta mondiale circa 70 Paesi, ma nei primi 10 si concentrano circa i ¾ della produzione totale: in figura 1 è sintetizzato l’andamento produttivo dei principali Paesi mondiali negli ultimi tre trienni. Come rilevabile, la Turchia è andata sempre più qualificandosi come leader mondiale in virtù di un’offerta passata da 400.000 a 600.000 t per campagna nel periodo 2007-16 (+4,85% su base annua). Il secondo bacino produttivo è quello degli Stati Uniti, con un potenziale di oltre 300.000 t, seguiti dall’Iran con più di 200.000 t annue. Solo al quarto gradino si collocano i primi produttori europei, ovvero Italia e Spagna, che evidenziano rispettivamente un potenziale di circa 110.000 (con calo del 9%) e 95.000 t (con crescita del 12%). Tra i principali “competitor” mondiali vanno sottolineati ancora i forti progressi registrati in Cile (+27%, nell’ultimo decennio 2007-16) e Iran (+11% nello stesso periodo).
Il commercio mondiale
Sebbene le caratteristiche di serbevolezza dei frutti impongano un’elevata attenzione nel trasporto e nella conservazione, gli scambi commerciali di ciliegie dolci sono in costante aumento ed interessano ormai il 15% circa dell’offerta mondiale. I volumi scambiati negli ultimi 5 anni, difatti, sono passati da 300.000 a 400.000 t, coinvolgendo quasi 60 Paesi esportatori ed oltre 110 importatori. Quantunque il commercio sia in fase di crescita, permane tuttavia una forte concentrazione dei flussi: in particolare, secondo i dati USDA i primi 3 Paesi esportatori, Stati Uniti, Cile e Turchia, alimentano il 70% dei volumi esportati, mentre i primi 3 importatori, Cina, Hong Kong e Russia, assorbono più del 60% dei quantitativi importati. È da rimarcare, specialmente, il raddoppio dei flussi in uscita dal Cile e in entrata in Cina avvenuto fra le campagne 2012-13 e 2017-18.
Gli scambi che avvengono nell’Ue appaiono invece piuttosto contenuti: nelle ultime due campagne l’export complessivo, difatti, è calcolato intorno alle 100.000 t, mentre l’import è computato sulle 140.000 t (Tab. 1) e ciò comporta un saldo negativo di circa 40.000 t, con un disavanzo commerciale di oltre 150 Ml €, poiché i prezzi delle ciliegie importate sono mediamente superiori a quelli del prodotto esportato. Escludendo i Paesi riesportatori, i principali protagonisti sul versante dell’export sono, nell’ordine, Spagna, Grecia e Italia. In tutti i casi i volumi evidenziano oscillazioni, più evidenti per Grecia e Italia, soprattutto in funzione dell’abbondanza o della scarsità del prodotto interno. Piuttosto chiaro è il posizionamento in termini di prezzo che emerge dalla media dell’ultimo quinquennio, con l’Italia che si colloca mediamente a 3,69 €/kg, la Spagna a 2,54 €/kg e la Grecia a 1,75 €/kg.
Paesi importatori
Il più importante è di gran lunga la Germania, che assorbe 1/3 circa dell’import totale, seguita da Austria e da Regno Unito. La Germania, inoltre, è anche l’unico tra i maggiori importatori ad evidenziare un chiaro aumento della domanda, mentre negli altri casi si rileva una situazione sostanzialmente stabile. Relativamente agli altri Paesi dell’Ue, si rileva una domanda molto oscillante che rende, pertanto, difficile individuare un trend preciso: si possono, tuttavia, segnalare tendenziali aumenti in Polonia, Ungheria, Svezia e Portogallo. Il valore medio del prodotto importato tende ad essere in tutti i casi piuttosto concentrato attorno a 3 €/kg, almeno per i principali Paesi: valori tendenzialmente maggiori si rilevano nel Nord Europa, mentre nell’Est Europa, tranne poche eccezioni, è frequente scendere anche al di sotto di 2 €/kg. Va anche rilevato come una quota pari al 20-30% dell’import complessivo nell’Ue sia di provenienza turca, con prezzi variabili fra 3 e 3,50 €/kg.
Commercio italiano
Circa la situazione in Italia, il suo commercio estero è fortemente dipendente dalla disponibilità interna che, come è noto, risente di andamenti climatici più o meno favorevoli. La bilancia commerciale, permanentemente in attivo fino ai primi anni 2000, attualmente registra una certa alternanza. Nelle ultime 6 campagne, ad esempio, in 4 soli casi il saldo si è chiuso in attivo (Tab. 2). I prezzi di scambio evidenziano piuttosto chiaramente come il commercio italiano sia orientato verso un export di alta qualità ed un import di medio-basso livello. Nel periodo esaminato, difatti, il valore della merce esportata è oscillato fra 3 e 4 €/kg, contro 2,2-2,8 €/kg dell’import. Per effetto di tale differenziale, la bilancia commerciale espressa in valuta registra un saldo cumulato di 60 Ml € nelle citate campagne.
I principali partner commerciali dell’Italia sul fronte dell’export sono la Germania (con il 50% circa), seguita a distanza dalle vicine Svizzera e Austria che, nel complesso, assorbono una quota del 20% dei volumi esportati. Un’interessante crescita è rilevabile nei confronti di Regno Unito e dei Paesi Bassi, ma, anche in tali casi, l’irregolarità dei volumi spediti rende difficoltosa un’opportuna valutazione, mentre il commercio verso Paesi extra-Ue, Svizzera a parte, è praticamente inesistente. Sul versante delle importazioni, il principale fornitore dell’Italia è la Spagna, che concorre per il 40 e fino al 65% dell’import totale, mentre la Turchia, ad eccezione del 2016, detiene una quota ancora distante, dell’ordine del 20-30%, anche se tendenzialmente in crescita.
Oltre il 60% della produzione italiana è localizzata nella sola Puglia (la quasi totalità in provincia di Bari) ed è dunque prevalentemente da tale regione che le ciliegie nostrane sono avviate sui mercati esteri. Oltre alla Puglia, solo in altre tre regioni, Campania, Emilia-Romagna e Veneto, la coltivazione ha trovato le condizioni per una certa diffusione commercialmente rilevante, peraltro localizzata in circoscritti areali di produzione (tra i più importanti si ricordano: il Casertano, Vignola, il Cesenate, il Veronese, Marostica). Nelle rimanenti regioni italiane, interessanti sono pure gli impianti presenti nel Trentino e nell’Alto Adige, ovvero in areali produttivi che consentono di allungare il calendario di maturazione anche nei mesi più caldi, fino ad agosto. Come ricordato, la produzione italiana è condizionata dagli andamenti climatici variabili e dunque è oggetto di oscillazioni, anche rilevanti. Nel 2013 i raccolti hanno sfiorato le 140.000 t, mentre nel 2016 l’offerta si è attestata a poco più di 100.000 t. Particolarmente variabile è risultata la produzione della Puglia, i cui raccolti hanno oscillato da poco più di 60.000 nelle annate migliori a poco oltre le 30.000 t in quelle peggiori.
La cerasicoltura del nostro Paese presenta importanti differenze fra Nord e Sud. In particolare, negli areali del Nord appare evidente la crescita di impianti più moderni, spesso predisposti con reti antipioggia/antigrandine e in alcuni casi con reti anti-insetto per prevenire gli attacchi di Drosophila suzukii; sono spesso coltivate nuove varietà, autofertili e dunque più produttive oppure anche auto-incompatibili, con buone caratteristiche organolettiche, polpa consistente e buona pezzatura. Tra le nuove varietà qui si ricordano: Early Bigi, Early Lory, Giorgia, Grace Star, Black Star, Celeste, Lapins, la serie Sweet, Kordia, Regina, ecc.
Nelle regioni del Sud, in provincia di Bari in modo speciale, permane fortemente dominante la cv. Ferrovia e l’auspicato rinnovo varietale in associazione a impianti più intensivi procede lentamente (in Italia gli impianti in allevamento sono meno del 3% dell’intera estensione dei ceraseti e al Sud ancora meno), sia per problemi agronomici, sia anche a causa degli alti costi che i nuovi impianti impongono (circa 70.000 €/ha, ma anche oltre ), senza peraltro avere la garanzia assoluta di eliminare i rischi connessi ad una stagione sfavorevole in certe annate (che può incidere su una allegagione non ottimale e dunque penalizzarne la resa produttiva), al “cracking” e, naturalmente, alla volatilità dei prezzi di mercato. Le quotazioni delle ciliegie dolci, infatti, sono fortemente condizionate dall’offerta contingente, ovvero di quella disponibile nel brevissimo periodo (pochi giorni e/o settimana) nelle principali piazze di collocamento e sono sufficienti modeste variazioni di quantità da esitare (in più o in meno) rispetto ad una domanda tendenzialmente rigida a far variare il livello dei prezzi al consumo in misura significativa.
I consumi
Sul versante dei consumi, i dati Gfk Italia relativi agli acquisti domestici delle famiglie italiane, evidenziano un andamento sostanzialmente opposto rispetto a quello della maggior parte delle referenze frutticole. Ad una fase di progressiva crescita, particolarmente evidente soprattutto nel decennio 2004-13 (da 90 a 120.000 t), è infatti seguito da brusco rallentamento nel biennio 2014-15, seguito da una ricrescita del 9% nel 2016. Tali oscillazioni, comunque, non stupiscono per una referenza di elevato posizionamento ed alta stagionalità, la cui sensibilità alle diverse dinamiche influenti è molto più alta rispetto a specie dal consumo più massivo.
Il consumo apparente è invece calcolato in poco più di 2 kg/pro-capite. Il consumo appare dunque in grado di essere ulteriormente incrementato, soprattutto se le nuove varietà offerte, oltre ad essere di buona qualità e di polpa consistente, si presentano sui mercati con un prezzo non eccessivamente elevato, il cui livello deve però essere in grado di soddisfare tutti gli attori della filiera, produttore compreso, e non alimentare solo gli anelli più forti della catena del valore, ovvero commercianti, distributori, ecc.
Lo sviluppo della cesaricoltura in Italia passa dunque da un rinnovo varietale più deciso, che consenta di offrire una gamma più vasta e di buona qualità, in grado inoltre di allungare il calendario di maturazione fino a tutti i mesi estivi, così da rispondere al meglio ad una domanda sempre più esigente e stratificata.
È dunque in un ambito di sistema che occorre agire per un adeguato sviluppo del comparto. Dal campo al banco di vendita, il prodotto deve avere una sua precisa destinazione e deve essere coltivato, raccolto e trattato nelle operazioni di post-raccolta in modo adeguato e con estrema professionalità per non ridurre la qualità fisiologica dei frutti, al fine di soddisfare le differenti esigenze del consumatore finale (italiano, tedesco o inglese che sia). Una più attenta lettura dei fenomeni connessi all’evoluzione della domanda sui principali mercati di sbocco (italiani e non) potrebbe inoltre favorire un miglior raccordo tra le diverse fasi della filiera, creando dunque un sistema produttivo unico, fino al punto di impostare le campagne in funzione di una definita destinazione della merce. In altri termini, occorrerebbe trasferire anche in campo frutticolo quello che avviene in altri settori produttivi del “no food” in cui si è particolarmente attenti ai gusti del consumatore, il quale deve ritrovare nel consumo del bene acquistato tutte le attese connesse alla spesa sostenuta, in sintesi raggiungere la cosiddetta “customer satisfaction”.