Se dovessimo classificare le colture agrarie in funzione della loro permeabilità al cambiamento, la viticoltura andrebbe considerata senza dubbi una coltura conservatrice. Poche specie coltivate hanno rifiutato sistematicamente l’apertura all’innovazione genetica come la vite, anche se è necessario distinguere tra uve da tavola e uve da vino. Le prime hanno goduto in maniera sistematica dei benefici del miglioramento genetico e il continuo rinnovamento varietale ne è la testimonianza. Delle seconde non si può dire lo stesso. Ancorate al binomio ‘vitigno-terroir’, sono rimaste prigioniere dell’opinione diffusa che questi connubi debbano essere per l’eternità, mentre niente è durevole nel mondo biologico. Le piante vivono un rapporto di competizione con i loro patogeni e proprio questo rapporto di competizione per la sopravvivenza costringe entrambi – ospite e patogeno – a mutare nel tempo. Nel binomio vite-patogeno, il patogeno muta e diventa aggressivo, mentre la vite riprodotta per via vegetativa è costretta a restare com’è, senza alcuna possibilità di evolversi per affrontare l’ambiente ostile che la circonda. Si può fare. L’abbiamo fatto. A partire dalla seconda metà dell’’800, l’industria chimica ha messo a disposizione una serie di prodotti con cui abbiamo difeso le viti. Le abbiamo difese con successo, se è vero che da allora abbiamo potuto continuare a coltivare le varietà selezionate nel corso dei secoli. Ma a quale prezzo. Al prezzo di circa 62 mila tonnellate di soli fungicidi, esclusi diserbanti, insetticidi e quant’altro serve, impiegati annualmente per la difesa della vite: una quantità che rappresenta il 65% di tutti i fungicidi impiegati in agricoltura nella Ue (fonte Eurostat 2007). Questo dato basterebbe da solo per far riflettere sulla poca ragionevolezza della strada percorsa finora dalla viticoltura.
Per una viticoltura sostenibile, di alternative ce ne sono almeno tre:
• costituire nuove varietà resistenti alle malattie attraverso incrocio e selezione;
• modificare le vecchie varietà, rendendole resistenti,
• neutralizzare la virulenza del patogeno.
Vediamo brevemente le prime due vie, cercando di capire il loro valore scientifico, l’impatto sulla filiera e la disponibilità o meno del consumatore ad accogliere queste novità. La terza via richiederebbe un articolo da sola e per questo la lasciamo da parte, ma meriterebbe sicuramente attenzione almeno quanto le altre.
Le viti resistenti prodotte per incrocio e selezione
Il mondo della ricerca ha iniziato a produrre queste viti poco dopo la comparsa in Europa delle malattie fungine portate dal Nuovo Mondo, oidio (1845) e peronospora (1878) in particolare, e dopo la comparsa della fillossera (1863), un insetto ugualmente dannoso per le viti europee.
Il controllo della fillossera è stato attuato con successo ricorrendo ai portinnesti con sangue americano e proprio perché si trattava di portinnesti e non di varietà coltivate per la produzione di uva da vino, il mondo vitivinicolo non ha trovato obiezioni alla novità. Diversa è la storia delle varietà per la produzione di uva da vino. Dopo una prima serie di incroci tra viti europee e viti americane, che ha dato origine ai cosiddetti ‘ibridi di prima generazione’, la diffusione dei quali è stata rapida soprattutto in Francia, il mondo vitivinicolo europeo ha reagito promuovendo la messa al bando dei vini prodotti con tali ibridi. C’erano ovviamente tutte le ragioni: rischiavano di sparire le varietà europee di vite da vino, gli ibridi davano vini con caratteristiche qualitative non buone, alcuni presentavano anche problemi per la salute.
Era evidente che bisognava continuare il percorso, reincrociando questi ibridi con varietà di vinifera per eliminare progressivamente il sangue americano, mantenendo delle specie americane i caratteri di resistenza alle malattie. Ci fu chi continuò su questa strada. Centri come l’Istituto tedesco per la Viticoltura di Geilweilerhof, gli istituti ungheresi per la Viticoltura e l’Enologia di Kecskemét e Pècs o il gruppo di Viticoltura dell’Università di Novi Sad in Serbia, tanto per ricordare alcuni centri molto noti agli addetti del settore, hanno continuato per decenni nel secolo scorso a reincrociare su vinifera e a portare nei “background” genetici degli incroci nuove fonti di resistenza alle malattie, identificate non solo nelle viti americane, ma anche in quelle asiatiche.
I risultati sono stati forse inferiori alle aspettative e, vuoi per la qualità non eccezionale dei vini e vuoi per la scarsa attenzione del mondo vitivinicolo all’inquinamento da fitofarmaci, le varietà prodotte fino alla fine del XX secolo non hanno trovato apprezzabile diffusione.
Le viti resistenti di recente costituzione
Negli ultimi 15-20 anni, grazie ad una maggiore attenzione del mondo agricolo per l’ambiente e grazie agli spettacolari progressi della genomica, della genetica assistita e della biologia molecolare, entrate prepotentemente nei programmi di breeding viticolo, si è assistito a un rifiorire dell’interesse per questi vitigni ottenuti con i metodi tradizionali di incrocio e selezione. Una recente ricerca a cura del gruppo ICV francese (www.icv.fr) ha contato 370 varietà resistenti (le dieci di Udine non sono state inserite in tempo), ottenute in 25 diversi Paesi (AAVV 2014): un numero davvero considerevole, segno di un rinnovato interesse per l’argomento in gran parte dei Paesi vitivinicoli, soprattutto quelli dove le condizioni climatiche avverse impongono maggiori trattamenti per la difesa della coltura. Di seguito si riporta la situazione di alcuni Paesi di tradizione viticola particolarmente attivi nell’attività di breeding e selezione di uve da vino.
La situazione in Ungheria
In Ungheria i programmi di incrocio tra viti europee e viti americane per la produzione di uve da tavola e da vino resistenti alle malattie iniziarono nel 1949 ad opera di Pal Kozma senior, il cui lavoro fu continuato dal figlio Pal Kozma junior. Alcune varietà interessanti, come Bianca e Nero, sono state diffuse in coltivazione in Ungheria e in Paesi vicini. Le stesse varietà hanno trovato diffusione limitata anche fuori Europa.
Alle iniziali fonti di resistenza a peronospora provenienti da specie americane, furono aggiunte fonti di resistenza alle malattie provenienti da genotipi di V. amurensis, introdotti dalla Cina grazie ai buoni rapporti con quel Paese delle ex Repubbliche sovietiche, cui l’Ungheria apparteneva in passato. Recentemente il programma si è arricchito di fonti di resistenza ad oidio derivanti da Muscadinia rotundifolia, selezionate dai francesi, e di altre fonti di resistenza derivanti da ibridi di V. rotundifolia. Nella figura 3 è riportato il complesso “pedigree” della popolazione di incrocio 99-1, molto usata dai breeder europei perché ingloba resistenze derivanti da Muscadinia rotundifolia e da V. amurensis.
La situazione in Germania
La produzione di ibridi resistenti alle malattie è iniziata in Germania nel 1926 ad opera di Erwin Baur ed è proseguita sostanzialmente per tutto il secolo scorso fino ad oggi, grazie all’attività di centri come l’Università di Geisenheim e, soprattutto, l’Istituto di Viticoltura di Geilweilerhof. Entrambi i Centri di ricerca hanno rilasciato cultivar da vino di un certo interesse, alcune coltivate estesamente in Germania e in misura più ridotta in altri Paesi europei e negli Usa.
Le varietà licenziate finora da Gailweilerhof hanno un gene di resistenza a peronospora (rpv3 o rpv10) e spesso un gene di resistenza a oidio (ren3). L’Istituto di Geilweilerhof ha percorso tutte le tappe delle genetica viticola, dall’identificazione delle fonti di resistenza, alla loro mappatura, allo sviluppo delle selezione assistita, fino alla trasformazione genetica con la produzione di piante di vite geneticamente modificate (GM). Avendo acquisito gran parte delle fonti di resistenza descritte in letteratura, l’Istituto sta sviluppando programmi di breeding caratterizzati da piramidizzazioni di molti geni di resistenza a peronospora, oidio e altri patogeni e parassiti.
La situazione in Francia
La disastrosa situazione della viticoltura francese a seguito dell’introduzione in Europa di oidio e peronospora ha spinto fin dalla fine del XIX secolo i breeder privati a sviluppare programmi di incrocio tra viti europee e viti americane portanti geni di resistenza. L’attività, breve ma intensa, ha dato origine a ibridi produttori diretti, i cosiddetti ‘ibridi francesi’, la cui coltivazione si estese considerevolmente in Francia e nei Paesi limitrofi fino all’introduzione di rame e zolfo per il controllo delle malattie fungine della vite, che decretò lentamente il ritorno alla coltivazione delle varietà di vite europea. Negli anni attorno al 1960 gli ibridi produttori diretti coprivano ancora il 30% delle superfici coltivate a vite da vino in Francia.
Il programma di breeding per le resistenze è stato riattivato in Francia nel 2000 a cura dell’Inra di Colmar con una serie di incroci in cui venivano combinate inizialmente due resistenze monogeniche a peronospora (rpv1 e rpv3) e due a oidio (run1 e run3) e, successivamente, tre resistenze a ciascuno dei patogeni, per l’aggiunta dei geni rpv10 e run3.2 provenienti da V. amurensis (AAVV 2014). Il licenziamento delle prime varietà a doppia resistenza è previsto per il 2016. Attualmente i ricercatori francesi stanno dibattendo sull’opportunità o meno di combinare in un unico genotipo un numero elevato di resistenze.
La situazione in Italia
L’Italia, a parte qualche sporadico e breve programma nella seconda metà del secolo scorso, di cui sostanzialmente non è rimasta traccia, ha iniziato un programma di miglioramento genetico della vite per la produzione di varietà di uva da vino resistenti alle malattie nel 1998, grazie all’attività dell’Università di Udine, che ha ricevuto un iniziale finanziamento pluriennale dall’Amministrazione regionale, al quale si sono aggiunti successivamente finanziamenti pubblici e privati che hanno contribuito a mantenere attivo il programma fino ad oggi.
Da qualche anno, un’attività importante di incrocio per la produzione di varietà di vite resistenti alle malattie è iniziata anche presso la fondazione E. Mach di S. Michele all’Adige (Tn), mentre un’attività più modesta e mirata alla creazione di viti resistenti che ricordino per la qualità del vino qualche varietà nota e di grande diffusione (es. Glera, la varietà con cui si produce il noto Prosecco), è iniziata presso il Crea (ex Cra-Vit) di Conegliano (Tv) un paio di anni fa.
Il programma dell’Università di Udine, alla quale ha partecipato dal 2006 l’Istituto di Genomica Applicata (www.appliedgenomics.org), è iniziato con un piano di incroci in cui varietà internazionali e locali (Chardonnay, Cabernet Sauvignon, Merlot, Sangiovese, Tocai Friulano …) sono state incrociate con varietà e selezioni avanzate provenienti da alcuni programmi di breeding europei (Bianca, Sel. 20/3, Regent e altre). Queste selezioni ungheresi e tedesche portavano un paio di geni di resistenza a peronospora e un gene di resistenza ad oidio. I parentali resistenti scelti per gli incroci presentavano le caratteristiche ampelografiche ed enologiche tipiche di V. vinifera, derivando da alcune generazioni di reincrocio di ibridi interspecifici di prima generazione con varietà di vinifera.
Si trattava in tutti i casi di varietà selezionate in Paesi con stagioni estive corte e una generazione di incrocio con varietà di V. vinifera a ciclo più lungo è stata sufficiente per rendere le nuove selezioni più idonee ad una viticoltura mediterranea, caratterizzata da estati più lunghe e calde. Gli incroci eseguiti nel 2002 e 2003 hanno portato alla selezione di 10 nuove varietà, 5 a bacca bianca e 5 a bacca nera, che il 28 agosto 2015 sono state iscritte nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite (GU 199). Nello stesso periodo le dieci varietà sono state registrate per la protezione brevettuale presso il Cpvo, l’ufficio europeo dei brevetti vegetali, a cura dei Vivai Cooperativi di Rauscedo, che hanno avuto dall’Università di Udine i diritti di moltiplicazione in esclusiva.
Le caratteristiche agronomiche ed enologiche delle dieci varietà si trovano nel quaderno tecnico Vcr n. 16 che può essere richiesto direttamente ai Vivai Cooperativi di Rauscedo (www.vivairauscedo.com).
Dopo gli incroci del 2002-2003, i ricercatori di Udine hanno continuato il programma di breeding con alcuni nuovi obiettivi:
• la piramidizzazione delle resistenze per renderle più durevoli nelle nuove selezioni. In pratica, il gruppo lavora attualmente con tre resistenze a peronospora (rpv1, rpv10, rpv12) e due resistenze ad oidio (run1 e ren1), che unisce in varie combinazioni per ottenere nuove selezioni con due resistenze a peronospora e 1 o 2 resistenze ad oidio. La lista delle resistenze maggiormente utilizzate nei programmi di breeding e la loro fonte sono riportate nella tabella 1;
• la diversificazione del prodotto di incrocio. In altre parole, mentre nei primi incroci si sono usate prevalentemente varietà internazionali molto diffuse per la produzione di vini ‘generalisti’, negli incroci successivi si è iniziato a diversificare il prodotto per ottenere selezioni adatte a destinazioni diverse: base spumante, vini adatti a lunghi invecchiamenti, vini da dessert, vini che richiamino varietà molto diffuse in singoli Paesi, ecc;
• la messa a punto di metodi di selezione assistita da marcatori, per accelerare il processo di selezione e ridurre gli spazi necessari per l’allevamento dei semenzali. Il primo passo è stato l’uso di marcatori SSR e SNP per la selezione delle singole resistenze, mentre un lavoro più impegnativo affidato all’Istituto di Genomica Applicata è la valutazione dell’estensione nelle nuove selezioni delle regioni aplotipiche ereditate dall’ancestrale selvatico resistente;
• la messa a punto di metodi di analisi rapida di profili metabolici (varie classi di composti volatili che contribuiscono all’aroma di mosti e vini) in vista di una pre-selezione degli incroci destinati alle vinificazioni e ai test di assaggio dei vini. La selezione basata sui profili metabolici dei mosti permetterebbe di attuare una selezione contro aromi indesiderati, riducendo così il numero di micro-vinificazioni, particolarmente costose.
Approcci alternativi al breeding convenzionale
Certamente continuerà in molti centri di ricerca lo sviluppo di nuove varietà di vite resistenti alle malattie ottenute attraverso incrocio e selezione, oggigiorno sempre più assistita dalle informazioni sulle sequenze dei genomi, ma alcune nuove prospettive si stanno concretizzando dal punto di vista scientifico e meritano una riflessione. Parliamo delle tecniche basate sull’uso del DNA ricombinante, in particolare della “cisgenesi” e del ‘genome editing’. Vediamole brevemente prima di qualche riflessione.
Cisgenesi
Le piante di vite geneticamente modificate con l’introduzione di geni estranei alla vite stessa sono state oggetto di una “guerra di religione”, a nostro avviso poco giustificata. Ma parliamo del passato. Oggi sono in corso di isolamento geni di resistenza ed altri geni che controllano il metabolismo di composti legati alla qualità della bacca, presenti in vite, che potrebbero essere trasferiti da un genotipo ad un altro con le tecniche utilizzate per la creazione di piante geneticamente modificate.
L’avversione nei riguardi delle piante geneticamente modificate ha riguardato in passato i protocolli di inserimento – in particolare le cosiddette cassette di espressione, che contenevano per esempio geni di resistenza ad antibiotici, promotori costitutivi, ecc. – ma anche i geni utilizzati che, se provenienti da organismi viventi molto lontani dalla specie da trasformare, generavano sospetti e paure.
Il 2016 sarà probabilmente l’anno in cui verranno rese note le sequenze dei primi geni di resistenza a patogeni identificati e isolati in vite e nel giro di qualche anno altri interessanti geni di vite, non solo di resistenza, verranno isolati e sequenziati. L’uso di tali geni per trasformare varietà di vite di grande pregio e renderle ad esempio resistenti a malattie o per aumentarne il contenuto di particolari classi di antociani non dovrebbe incontrare gli ostacoli che incontravano i geni presi da organismi diversi dalla vite. Ma le reazioni dell’opinione pubblica sono imprevedibili, come abbiamo visto per le prime piante geneticamente modificate.
Il ‘genome editing’
È la frontiera più recente delle tecniche di modificazione genetica offerte dalla ricerca in campo medico. La tecnologia, nota agli addetti come tecnologia Crisp, può essere trasferita in campo vegetale con una relativa facilità. Il taglio di questa Rivista non permette dettagli scientifici, ma al Lettore sarà sufficiente sapere che si tratta di una tecnica che non introduce alcun gene estraneo nel genoma di un individuo, ma modifica la sequenza ‘in loco’, riparando un gene, rendendolo inattivo o modificandolo e rendendolo adatto, ad esempio, a riconoscere un determinato patogeno. Chi fosse interessato ad un approfondimento può trovare una buona descrizione della tecnica e delle potenziali applicazioni su wikipedia (https://en.wikipedia.org/ wiki/CRISPR).
In occasione dell’Expo di Milano, la tecnica presentata dal collega Michele Morgante, accademico dei Lincei e docente di genetica all’Università di Udine, per gli aspetti che potrebbero riguardare il campo vegetale ha suscitato molto interesse e aperture da parte del Ministro dell’Agricoltura, che sembra disposto ad investire nella ricerca di base, perché il nostro Paese non perda ancora una volta il treno delle innovazioni che la genetica molecolare può portare in agricoltura.
Occorre aggiungere che la relativa facilità d’uso e l’accessibilità economica di questa tecnologia ha suscitato anche qualche allarme nella comunità scientifica, amplificato – come sempre – dai media, soprattutto per le applicazioni in campo medico.
Il futuro del breeding: una scelta difficile
Tutte le tecniche di breeding, convenzionale o no, sono potenzialmente interessanti e meritano di esser approfondite, senza che si scatenino a priori “guerre di religione”. Per restare al nostro tema: dove andrà il breeding della vite? È difficile da prevedere. Personalmente ci appassiona poco l’idea di modificare geneticamente le attuali varietà perché tengano il passo con l’evoluzione del mercato e i cambiamenti climatici. Ci troveremmo tra qualche anno con varietà che dovremmo continuamente modificare per renderle adatte a sopravvivere.
La biologia degli esseri viventi, piante coltivate comprese, è evoluzione, adattamento. Non c’è niente nella biologia che faccia pensare all’immobilismo, all’immortalità. Tutte le specie sopravvivono mutando e ricombinando geni. È il bello della vita. L’incrocio, naturale o artificiale che sia, ricombina continuamente le varianti dei circa 30 mila geni della vite, che rappresentano la diversità genetica di questa specie.
Con tutto rispetto per le viti che sono state selezionate nei secoli e si sono affermate nel mondo, non ha senso fermare tutto in un quadro che vede una decina di varietà, di origine francese, dominare l’industria vitivinicola mondiale, rinunciando alla possibilità di esplorare nuove combinazioni, mai viste prima. Non c’è ragione per pensare che selezioni ottenute per incrocio non possano essere migliori di quelle che coltiviamo attualmente.