L’offerta mondiale di frutta fresca attraversa da lungo tempo una fase di costante crescita: nel corso del decennio 2002-2011 essa è aumentata di 1/3 circa, passando da 450 a quasi 600 milioni di t annue (Fig. 1), pari ad un TAV del 3,2%. A differenza dei periodi precedenti, l’incremento dei raccolti è sostanzialmente dovuto al miglioramento delle rese ettariali, poiché gli investimenti, dell’ordine di 50 milioni di ettari nel 2011, sono cresciuti ad un ritmo dell’1,7% annuo. L’offerta globale è costituita per poco più del 43% da frutti tropicali, per il 22% da agrumi e per il rimanente 35% da altre specie di climi temperati: nel decennio esaminato, i frutti tropicali sono aumentati ad un tasso del 4% annuo, le altre specie non tropicali del 3% e gli agrumi solamente del 2%. Tra le specie dei climi temperati, pesche e nettarine (+4,4%), mele (+3,1%) e pere (+3,8%) hanno fatto registrare i maggiori incrementi annui. Dal punto di vista geografico, la crescita è avvenuta in modo difforme: in Asia, difatti, il TAV è stato superiore al 5%, in Africa ha toccato il 2,6%, mentre è rimasto sostanzialmente stabile negli altri continenti. La situazione nell’Ue ricalca, di fatto, quella rilevata in Europa, con volumi stabili, ma in un quadro di progressiva contrazione degli investimenti, valutabile in poco più del 5%. L’offerta è rappresentata per il 27% da agrumi e per il 73% da altre specie, fra cui primeggiano le mele (30% del totale), seguite da arance, pesche e nettarine, pere, clementine e mandarini e, infine, uva da tavola, tutte con un’offerta superiore a 2 milioni di t. Tra le principali specie non si evidenziano dinamiche degne di nota, poiché nella maggior parte dei casi il relativo TAV, sia in aumento, sia in diminuzione, non supera l’1%. Quasi l’80% dei raccolti è concentrato in soli 5 Paesi (Fig. 2): è interessante notare come l’Italia abbia assunto la leadership produttiva nell’Ue, con un’offerta passata da poco più di 10 milioni ad oltre 11,5 milioni di t nel decennio 2002-2011. Tra i grandi produttori, l’Italia è la sola ad aver aumentato la propria disponibilità, superando così la Spagna, ora seconda con una produzione annua di circa 9,5 milioni di t, diminuita ad un ritmo dell’1,35% all’anno. Evidente e progressiva la contrazione produttiva della Francia (-3% annuo), mentre Polonia e Grecia evidenziano una tendenziale variabilità dei raccolti annui.
La situazione in Italia
Nel nostro Paese, all’aumento dell’offerta ha fatto da contraltare una progressiva diminuzione delle superfici investite che, secondo le statistiche congiunturali Istat, sono scese da 740.000 a 670.000 ettari . Gli agrumi evidenziano una sostanziale tenuta, con perdite limitate a poco più di 10.000 ettari, mentre la maggior parte delle superfici dismesse, circa 60.000 ettari, riguarda specie non agrumicole (Fig. 3): nel dettaglio, l’uva da tavola perde oltre 13.500 ettari, pesche e nettarine quasi 12.000, mele e pere, rispettivamente, 6.700 e 6.100. Per contro, sono in apprezzabile aumento le superfici ad actinidia ed albicocco, in entrambi i casi di quasi 3.000 ha. In termini produttivi, la quasi totalità della crescita di cui sopra è da attribuire agli agrumi, mentre relativamente alle altre specie, si rilevano sostanziali incrementi di nettarine (+1,9% su base annua), kiwi (+2%), albicocche (+5%) e susine (+3,2%); per pomacee, uva da tavola, fragola e pesche comuni, seppur con oscillazioni, non si registrano strutturali variazioni dell’offerta. Dalla lettura di questi dati si evince, dunque, come sia avvenuta nel tempo una progressiva selezione delle imprese più professionali e capaci di raggiungere migliori performances produttive, indispensabili per la sopravvivenza sul mercato. Circa la distribuzione territoriale, questa è prevalentemente concentrata (85%) nelle regioni del Nord Est e nell’Italia meridionale e insulare. La diminuzione degli investimenti è stata più massiccia nel bacino produttivo Nord-orientale del Paese, che evidenzia un tasso di decremento pari all’1,5% annuo, contro lo 0,7% del Sud e delle Isole. In particolare, Veneto ed Emilia-Romagna sono le regioni che evidenziano le perdite più rilevanti di impianti (5.700 ha nel primo caso ed oltre 12.000 nel secondo).
Scambi commerciali
Il commercio di frutta fresca è in costante sviluppo e, come per altre produzioni alimentari, la domanda mostra segnali di crescita tendenzialmente superiori all’offerta: negli ultimi 10 anni, infatti, gli scambi mondiali sono aumentati ad un ritmo superiore al 4,5% annuo (da 42 a 60 milioni di t), mentre il valore dei prodotti scambiati è cresciuto al ritmo del 10% annuo. Nel decennio 2002-2011 i prezzi medi di scambio sono così aumentati del 60%. Per quanto concerne l’Ue, la bilancia commerciale è resa passiva dalla domanda di frutti tropicali, che nello stesso periodo è cresciuta di oltre il 40%, sebbene una quota sostanziale venga riesportata (Figg. 4-5). In valore, gli scambi commerciali complessivi dei Paesi Ue sono passati da 15 a 21 miliardi di Euro in entrata e da 10,5 a 16 miliardi di Euro in uscita. Limitando l’analisi alle specie non tropicali, il saldo è sostanzialmente in equilibrio, ma è da notare come le esportazioni siano aumentate ad un ritmo lievemente maggiore rispetto alle importazioni (2,5% annuo, contro l’1,1%). Tra le specie che evidenziano i maggiori tassi di crescita dei volumi esportati si segnalano kiwi (+8,6%), pere (+4,6%), pesche e nettarine (+4%), mentre è quasi fermo l’export di agrumi, ad eccezione di clementine e mandarini (+2,7%). Va evidenziato che i prezzi del prodotto esportato, ad eccezione, di fragole, albicocche, ciliegie e uva da tavola, sono rimasti sostanzialmente fermi nell’arco del decennio considerato o, tuttalpiù, cono cresciuti a ritmi decisamente inferiori alle dinamiche inflattive. Tra i prodotti importati, mele e arance sono le specie più richieste, ma entrambe in progressivo decremento, sebbene inferiore al punto percentuale. La maggior parte delle altre referenze cresce, invece, piuttosto uniformemente, a ritmi del 2-3% annuo.
Il trend delle esportazioni
I flussi di esportazione dell’Ue sono largamente dominati dalla Spagna, seguita a distanza dall’Italia, suo principale “competitor”. L’export spagnolo e italiano ammonta complessivamente al 45% del totale europeo, sia in volume, sia in valore: nel decennio esaminato la Spagna ha incrementato l’export ad un ritmo dell’1,2% annuo e l’Italia del 2%: attualmente l’export spagnolo ammonta a 5,5 milioni di t e quello italiano a poco più di 2,8 milioni di t. Crescono a ritmi più elevati i flussi di Belgio (+2,8%) e Paesi Bassi (+6,2%), costituiti in larga parte da prodotto riesportato, e della Grecia (+7%). In progressiva diminuzione, invece, l’export della Francia (-1,7%). In quasi tutti i casi i prezzi del prodotto esportato sono rimasti sostanzialmente fermi: minimi incrementi si registrano per i Paesi Bassi (+3% annuo) e per la Spagna (+2%), mentre anche il prodotto di origine francese, tradizionalmente collocato su fasce elevate, sembra non sfuggire alla dinamica di contenimento dei prezzi, allineandosi tendenzialmente a quello degli altri “competitor”.
Il trend delle importazioni
Il fenomeno certamente più evidente degli ultimi anni è la stagnazione del principale mercato europeo, la Germania, le cui importazioni sono ferme da un decennio su livelli pari a circa 4,5 milioni di t. All’immobilità del mercato tedesco corrisponde una progressiva crescita degli altri principali Paesi, più evidente nei Paesi Bassi, +6,3% su base annua, e più modesta nel Regno Unito, in Francia e in Belgio, attorno all’1-2% annuo. Alle spalle dei grandi importatori si colloca l’Italia, il cui import è salito di circa 150.000 t (da 1,5 a 1,65 milioni di t.). Di sicuro interesse è il trend di crescita dei Paesi dell’Est Europa: a titolo di esempio, la Polonia è passata da 0,86 a 1,12 milioni di t, la Repubblica Ceca da 0,37 a 0,53 e la Romania da 0,2 a 0,3. I prezzi medi della frutta importata da questi Paesi sono tuttavia particolarmente bassi, meno di 0,65 Euro/kg per la Polonia e per la Rep. Ceca e addirittura meno di 0,40 Euro/kg per la Romania, contro una media Ue di 0,81 Euro/kg. Infine, è inevitabile accennare alle potenzialità dei nuovi mercati extra Ue, il più importante dei quali è oggi certamente la Russia, un mercato che, almeno sinora, sembra offrire ampi spazi di collocamento, come testimonia il trend delle importazioni dai Paesi Ue che è aumentato da 500.000 t nel 2002 a quasi 1,4 milioni di t nel 2011.
La bilancia commerciale italiana
Il settore frutticolo offre da sempre un rilevante contributo alla bilancia commerciale agro-alimentare del nostro Paese, registrando annualmente saldi decisamente importanti. Nel 2012 il saldo attivo è stato pari a 1,25 miliardi di Euro, ma lo stesso sale a quasi 1,4 miliardi se dal calcolo si escludendo gli agrumi (Tab. 1); nell’ultimo decennio il saldo è aumentato in misura considerevole, con l’unica eccezione del 2009, a testimonianza del buono stato di salute del settore, nonostante la perdurante crisi mondiale e la presenza di “competitor” altamente concorrenziali. Circa le importazioni, le banane rappresentano il 40% della domanda (Fig. 6): proprio l’aumento dell’import di frutta tropicale è, assieme alle arance, principale responsabile della crescita complessiva delle importazioni. Relativamente alle altre specie, aumentano le importazioni di fragole e uva da tavola, mentre calano nettamente quelle di mele e albicocche. Sul versante delle esportazioni, è in primo luogo da notare l’apprezzabile incremento dei volumi avviati oltre frontiera nell’ultimo triennio, quando da una media di 2,5 milioni di t si è passati a circa 2,8 milioni di t (Fig. 7). La specie che ha maggiormente contribuito alla performance è la mela, che ha visto crescere i flussi di oltre 200.000 t. Buoni risultati si registrano anche per kiwi, arance e altri agrumi, albicocche e susine, mentre per le altre specie, ad eccezione della fragola che prosegue nel suo decremento, si rilevano andamenti oscillanti senza un trend ben definito. L’aumento dell’export è quasi interamente dovuto al commercio extra Ue, poiché quello rivolto ai Paesi Ue è rimasto sostanzialmente fermo: oggi il peso delle esportazioni al di fuori della Ue è del 20%. Evidente appare il progressivo spostamento dai mercati più tradizionali, quali la Germania ed il Regno Unito, verso i mercati dell’Est Europa. In particolare, è netta la flessione dell’export verso il mercato tedesco, da 1 milione a 670.000 t nel periodo 2003-2012, mentre il mercato britannico ha mostrato un’interessante dinamica fino al 2007 per poi flettere anch’esso progressivamente. Per contro, cresce l’export verso la Polonia, la Romania e, al di fuori dello spazio Ue, naturalmente verso la Russia, ormai arrivata a 100.000 t annue. Nota negativa sono i prezzi all’esportazione che, come già rilevato in termini generali, anche per l’Italia aumentano a livelli inferiori rispetto alle dinamiche inflattive e agli aumenti di costo sostenuti dalla filiera produttiva. Proprio a tale riguardo, va evidenziato come il nostro Paese si trovi a concorrere nel panorama europeo e mondiale con livelli di costo mediamente più elevati rispetto alla maggior parte dei principali “competitor”. A titolo di esempio, nella tabella 2 sono riportati alcuni casi riferiti a specifiche varietà di pesco, actinidia, susino e pero, a larga diffusione in Europa e, dunque, confrontabili. Come rilevabile, l’Italia e, soprattutto le aree produttive settentrionali, si trovano a competere con livelli di costo superiori del 5-10% rispetto alle aree meridionali del Paese o ancor più della Spagna, fino a punte anche superiori al 20% in taluni casi. Le cause di tali differenziali sono identificabili soprattutto nei più elevati costi della manodopera e nei maggiori carichi strutturali dell’azienda. Anche nei confronti dei Paesi del Nord Europa, come Belgio e Paesi Bassi, competitori sul mercato delle pere, i costi risultano più alti e non a causa dell’onere sul lavoro, bensì per effetto di minori rese produttive, anche se va evidenziato che, in questo caso, il livello qualitativo del prodotto ottenuto non è il medesimo.
Acquisti di frutta fresca in Italia
L’analisi dei consumi interni, attraverso i dati sugli acquisti delle famiglie di Gfk Italia, mette in luce una situazione difficoltosa: osservando i dati del decennio 2003-2012 (Fig. 8) si rileva ancora chiaramente la coda dell’effetto Euro, cioè il calo progressivo dei consumi di ortofrutta che conseguì all’introduzione della moneta unica e ai conseguenti aumenti speculativi di prezzo. Cessato tale effetto, gli acquisti di frutta fresca si erano tendenzialmente risollevati fino a sfiorare 4,6 milioni di t nel 2010, ma gli effetti dell’attuale crisi hanno fatto poi segnare due netti cali nell’ultimo biennio, fino a giungere a 4,35 milioni di t nel 2012, livello più basso del decennio. Da evidenziare come, in valore, la diminuzione sia meno evidente, a testimonianza dell’incremento dei prezzi medi al consumo. Tra le poche specie capaci di mantenere livelli stabili di consumo nel periodo esaminato si segnalano le pesche e le nettarine, queste ultime addirittura in crescita fino a 2 anni fa, così come il kiwi e le clementine. In netta flessione, invece, gli acquisti delle specie più consumate, cioè mele, pere e arance. Da segnalare, infine, che nonostante il ritrovato interesse verso forme distributive tradizionali o canali di vendita diretta, la quota di ortofrutta commercializzata in Italia attraverso la Distribuzione Moderna continua a crescere, dal 40% circa dei primi anni 2000, fino al 57% del 2012.
Considerazioni conclusive
Il comparto frutticolo vive da tempo una fase piuttosto difficile, caratterizzata da mercati tendenzialmente saturi e domande flettenti che, unitamente alla perdurante crisi economica generale, determinano sovente situazioni di prezzo ai limiti della sostenibilità o, talvolta, ben oltre, come dimostra chiaramente il confronto con i costi sostenuti dai produttori. Come rilevabile dalla figura 9, peraltro, anche se a livello mondiale la domanda di frutta è considerevolmente aumentata e, con essa, i prezzi medi di scambio, in Italia i prezzi alla produzione della frutta (così come degli ortaggi) sono aumentati molto meno rispetto ad altre produzioni agro-alimentari protagoniste dello stesso percorso mondiale, primi fra tutti i cereali. In conseguenza di tale situazione è avvenuta una consistente selezione delle imprese più professionali, come testimoniato dalla forte riduzione degli investimenti frutticoli e dalla crescita delle rese produttive medie: tale selezione è stata più incisiva nelle aree settentrionali del Paese, poiché queste sono più esposte alle crisi di mercato per effetto degli alti costi di produzione, a causa dell’onerosità della manodopera, dei più alti investimenti negli impianti e nella meccanizzazione e dell’impossibilità di contare sull’effetto precocità delle produzioni. In quest’ottica, appare fondamentale per l’immediato futuro la ricerca di nuovi sbocchi di mercato, un percorso che i nostri operatori hanno dimostrato già di intraprendere per fronteggiare il deciso calo della domanda interna e dei mercati europei più tradizionali, per i quali difficilmente è ipotizzabile a breve un’inversione di tendenza. Resta, certamente, la criticità relativa al prezzo che i nuovi mercati sono disposti a pagare, non sempre idoneo a produzioni di alta qualità. Occorre, pertanto, indirizzarsi anche verso ulteriori mercati a più alta disponibilità di reddito, nei quali esistono spazi di mercato, ma che, per essere occupati, necessitano della collaborazione delle Istituzioni nazionali ed europee al fine di abbattere le barriere che ancora sussistono. Per fare ciò, ma più in generale per rafforzare il potere di mercato della filiera frutticola nei confronti degli interlocutori, è assolutamente fondamentale l’aggregazione e l’organizzazione dell’offerta: non a caso, le aree ed i comparti più organizzati hanno saputo dimostrare di meglio resistere agli effetti delle ripetute crisi di mercato. In quest’ottica le forme organizzative “in club” sembrano offrire certamente ottime opportunità, a patto di individuare un prodotto di successo presso i consumatori. Sono certamente da accogliere con favore iniziative rivolte a valorizzare le produzioni locali attraverso canali di filiera corta più o meno organizzati, ma i dati indicano chiaramente come il canale largamente prevalente sia ancora quello massivo della Distribuzione Moderna, con la quale occorrerà sempre più dialogare e porsi su posizioni più favorevoli. Come è noto, l’Italia è da sempre un grande produttore di frutta fresca ed i numeri generati dal comparto sono eloquenti: il Pil annuo ammonta ad oltre 5,7 miliardi Euro, le esportazioni valgono quasi 2,5 miliardi di Euro e la bilancia commerciale della frutta fresca ha apportato nel 2012 al nostro Paese circa 1,25 miliardi di Euro. Tali numeri meritano sicuramente una difesa politica ed istituzionale commisurata alla strategicità del comparto.
Speciale Macfrut
Scenari futuri e opportunità di mercato per la frutticoltura italiana
Calano i consumi, cresce la competizione internazionale, aumenta la necessità di trovare nuovi mercati