Partiamo dalla notizia dell’estate. A giugno i dati Istat sull’inflazione hanno rilevato un incremento dei prezzi alimentari del 2,8%, più del doppio dell’inflazione media. Un’estate decisamente pazza, non solo per il maltempo, ma anche per il carrello della spesa, e l’ortofrutta in particolare: +11,1% per i vegetali freschi, +6,9% per la frutta. Va detto che una correlazione fra prezzi e andamento climatico è normale, entro certi limiti però. Il carrello agroalimentare si sta decisamente svuotando, non solo di ortofrutta (-4%), ma anche di olio extravergine di oliva (-12%), pesce (-11%), pasta (-9%), latte (-6%), carne (-1%). Da notare che i valori più alti, o più bassi sarebbe meglio dire, sono proprio di quei prodotti che sono la base della dieta mediterranea. Dieta peraltro, apprezzata e tutelata, che può vantare l’iscrizione nella prestigiosa lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità stilata dall’Unesco. Evidentemente, dunque, la crisi si riflette non solo sulla spesa alimentare, ma anche sulla dieta e la salute del consumatore, oltre che sul portafoglio del produttore. Sono troppi ad essere scontenti, bisogna correre ai ripari. In effetti, che la frutta e la verdura siano alimenti fondamentali per un regime nutrizionale equilibrato è risaputo da tempo. Cibi su cui l’educazione alimentare deve puntare per limitare il sovrappeso dilagante e le patologie ad esso correlate (per non dire dei costi economici). Insomma, consumare frutta e verdura non è soltanto una scelta azzeccata dal punto di vista nutrizionale e salutistico, ma anche uno stile di vita che affonda le radici in una cultura secolare attenta al valore ed al piacere del cibo. Il termine dieta ha infatti un etimo greco che significa proprio “modo di vivere”. Stiamo vivendo male. Ma andiamo oltre la notizia dell’estate, che non è un fulmine a ciel sereno, per vedere l’andamento del mercato, tutt’altro che positivo da tempo. Nel 2012 sono crollati i consumi di frutta e verdura da parte delle famiglie italiane, come ha rilevato il report annuale del CSO di Ferrara. I dati hanno mostrato un consumo complessivo di 8 milioni di t, di cui 4,3 milioni in frutta e 3,7 in ortaggi. Il calo è stato del 2% rispetto all’anno precedente. In particolare, è il comparto frutticolo a far segnare il ribasso più marcato con un -2,3% mentre gli ortaggi tamponano in parte le caduta realizzando un -1,6%. Entrando un po’ più nel dettaglio delle specie frutticole, si nota una contrazione generalizzata che oscilla fra il -1% e il -4%. Le poche eccezioni sono rappresentate dalle fragole, in lieve ripresa, e da prugne e pompelmi, stabili. Anche il 2013 sembra annunciarsi come un anno difficile. Ad esempio, analizzando i risultati di maggio 2013 si vede che il numero delle famiglie acquirenti di frutta fresca è calato del 3,7% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, mentre per la verdura è sceso dello 0,6%. Inoltre, sempre a maggio 2013 si è registrato un aumento degli acquisti di frutta fresca nei discount: +16,3% in quantità e +13,8% in valore rispetto stesso mese dell’anno scorso. Anche il piccolo dettagliante ha fatto registrare un lieve incremento dei volumi commercializzati di ortofrutta con un +1,8% sul dato di maggio 2012. Invece, la grande distribuzione organizzata, sebbene abbia conservato la quota valore, ha subito una contrazione dei volumi di vendita pari a -2,1% rispetto a maggio 2012. Questi valori indicano che l’attuale crisi economica da un lato ha imposto un freno ai consumi e dall’altro ha condizionato le scelte dei consumatori che hanno optato a favore di rivenditori più attenti al prezzo che non alla qualità del prodotto. Va anche detto che è ancora presto per elaborare giudizi compiuti. Per avere dati completi sul 2013 occorre ancora aspettare. Indicazioni più precise arriveranno dal Macfrut, a Cesena a fine settembre, anche se la prima parte dell’anno ha confermato le difficoltà del recente passato. Tuttavia, il calo dei consumi in Italia non può essere ricondotto soltanto alla crisi economica e finanziaria perché essa ha colpito tutti i Paesi industrializzati, sia in Europa che oltre oceano. È pur vero che, Grecia e Spagna a parte, le ripercussioni sul nostro Paese sono state più gravi che altrove, complice anche una serie di debolezze strutturali del sistema economico come la precarietà dei lavoratori - con un tasso di disoccupazione giovanile a dir poco drammatico - e il rallentamento dei salari. In queste condizioni un calo della propensione al consumo era inevitabile. Ad ogni modo, una famiglia italiana nel 2012 ha speso in frutta e verdura di circa 1,5 euro al giorno, ossia un valore tale da non poter giustificare una contrazione del livello appena citato. Inoltre, il comparto è in difficoltà da molto prima del settembre 2008, data alla quale si fa coincidere l’inizio di questa crisi. I dati mostrano che il comparto è in sofferenza da un paio di lustri. Dieci anni fa ogni famiglia acquistava in media 417 kg all’anno di ortofrutta; un livello che è andato progressivamente a scendere fino a toccare oggi 331 kg, vale a dire 86 kg/anno in meno. Nel dettaglio delle singole specie, nel corso degli ultimi dieci anni gli acquisti hanno fatto registrare un calo per mele, pere e arance (-15%), per l’uva da tavola (-18%), per i mandarini (-30%). Abbastanza stabili le pesche e le albicocche, mentre risultano in crescita le nettarine (+11%), i clementine (+15%), i meloni (+19%), le susine (+17%) e i kiwi (+36%), anche se questi nell’ultima annata hanno fatto segnare un rallentamento. In fortissima crescita c’è stata solo la frutta esotica (+102%). Sul fronte degli ortaggi, sempre nell’acro temporale di dieci anni, diminuiscono gli acquisti di patate (-14%), pomodori (-19%), carote (-10%), cipolle (-30%), melanzane (-10%), carciofi (-61%), mentre crescono insalate (+12%), cetrioli (+31%), asparagi (+13%), fagioli (+69%) e piselli (+16%). A salvare, o quanto meno a sostenere il comparto, ci sono le esportazioni. L’export va bene perché i prodotti della nostra agricoltura sono apprezzati. Il primo trimestre del 2013 ha fatto segnare un +2%, per un valore complessivo di oltre 3 miliardi di euro. I più richiesti all’estero sono i kiwi, di cui esportiamo 370 mila t l’anno cioè circa l’85% della nostra produzione, le mele, di cui esportiamo 850 mila t pari a circa il 40% della produzione nazionale, e poi l’uva da tavola, di cui indirizziamo ai mercati esteri 450 mila t (35% di quanto produciamo). Dopo questo tridente delle meraviglie, per usare un gergo calcistico, seguono altri prodotti che fanno segnare percentuali un po’ più basse ma significative, come pesche, insalate, pere, patate e pomodori. Complessivamente, questi prodotti fanno sì che la bilancia commerciale del comparto sia attiva, vale a dire che rispetto alle quantità che noi importiamo riusciamo a esportare 1,5 milioni di t in più, per un valore che si aggira intorno a 1,6 Md di euro. Anche le importazioni sono molto rilevanti in questo comparto e arrivano a circa 2 Ml di t l’anno. Le motivazioni di volumi così elevati a volte sono condivisibili altre volte un po’ meno. Alcuni prodotti molto consumati non sono coltivabili in Italia o almeno non possono esserlo in quantità significative e con risultati organolettici di pari valore a quelle importate. È il caso ad esempio delle banane e dell’ananas. È dunque inevitabile che la domanda interna debba essere soddisfatta con l’offerta proveniente da Paesi con condizioni pedo-climatiche differenti dalle nostre. Altro motivo per cui abbiamo bisogno di importare è legato alla stagionalità. Oggi la richiesta di ortofrutta è abbastanza standardizzata, soprattutto sugli scaffali della GDO, e anche destagionalizzata. È comprensibile trovare sui banchi di vendita frutta che proviene dall’altro emisfero quando da noi la stagione non lo consentirebbe. Ci sono poi i casi in cui il prodotto italiano è presente e in competizione con quello straniero, che a volte costa meno. Spesso, però, il prezzo inferiore rispecchia una ridotta qualità in termini di controlli insufficienti da parte delle autorità di questi Paesi sulla regolarità dei sistemi produttivi e di limitato progresso sociale. In sintesi, salari più bassi, condizioni di lavoro peggiori, utilizzo di materie prime di seconda scelta. Dunque, non di rado è proprio la qualità che si lascia sul bancone quando si opta per un prodotto molto a buon mercato che proviene da lontano. Alla luce di questi dati e considerazioni si capisce che le cause del calo dei consumi in ortofrutta non possano essere ascritte solo alla crisi economica, ma anzi debbano essere ricercate nelle debolezze strutturali del nostro sistema agro-industriale, nella scarsa educazione alimentare e quindi nella politica non sempre attenta e pronta. Negli ultimi decenni la politica agricola nazionale non è esistita. Di fatto, l’Italia si è limitata ad attuare le decisioni prese a Bruxelles nell’ambito della PAC senza curarsi a sufficienza delle esigenze e dei problemi di casa propria. Inoltre, la PAC è da qualche tempo in fase di profonda revisione e non può più garantire il sostegno offerto in passato. A dire il vero, anche negli anni precedenti quando la politica comunitaria aveva fatto del mercato europeo una sorta di fortezza, offriva un sostegno diversificato alle varie produzioni, privilegiando quelle tipiche dei Paesi del Centro-Nord. L’ortofrutta, più rilevante negli Stati mediterranei, non ha invece ricevuto un’attenzione pari a quella dedicata ad altri comparti come, ad esempio, i cereali. Questa “disattenzione” la stiamo pagando a caro prezzo. Un problema che riguarda le imprese del settore è la perdita di reddito che non può essere imputata soltanto all’andamento negativo del mercato. Produrre un kg di pesche costa circa 45 centesimi di euro, mentre non di rado negli ultimi anni gli agricoltori sono stati costretti a vendere intorno ai 30 cent/kg, quindi ben al di sotto del costo di produzione. Sebbene alcuni strumenti di tutela dei redditi siano stati confermati e in parte rinforzati nel recente accordo sulla PAC 2014-2020 (accordo in realtà potenziale perché ancora privo di copertura finanziaria che dipenderà dal negoziato in corsa sulle risorse a disposizione nel prossimo settennato), occorre eliminare alcune delle debolezze strutturali del nostro sistema. In particolare, occorre aumentare la forza contrattuale degli agricoltori lungo la filiera. Di conseguenza, l’aggregazione è una delle chiavi di volta per poter ambire ad una posizione più forte nei tavoli contrattuali. Essa rappresenta anche l’unica strada da percorrere per aumentare la competitività. Infatti, la qualità elevata che i nostri agricoltori sono in grado di garantire può non bastare sul mercato globalizzato, terreno di scontro con i nuovi “competitor” che possono contare su costi di produzione significativamente più bassi. La riposta, dunque, punta su quattro assi portanti: educazione (del consumatore), qualità (del prodotto), sostegno e aggregazione (del produttore). Del resto senza ortofrutta che dieta (e vita) è?
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