Quanto ha contribuito il suo background biologico per poter affrontare ora la competizione internazionale con i prodotti frutticoli ottenuti col disciplinare integrato, portatori di alta qualità, ma a prezzi ragionevoli?
Ho trascorso in quest’azienda già 40 anni, non solo nel biologico. Ho seguito per Apofruit tutti gli areali italiani, dal Nord, al Centro, al Sud. Inoltre, ho avuto modo di seguire da vicino la politica dell’azienda a livello internazionale, incentrata sullo sviluppo di prodotti club e di filiere già affermate, come quelle di Zespri Gold® e Pink Lady®, per fare un paio di esempi. Da 22 anni mi occupo di biologico, dove abbiamo introdotto strategie commerciali che, poi, sono state allargate anche al convenzionale e alla lotta integrata. Di fatto, il prodotto bio ha fatto da traino anche al prodotto integrato.
Lei ha dichiarato che le tre strategie di Apofruit saranno l’innovazione dei prodotti con varietà club, la politica di marca e la valorizzazione delle partnership con altri gruppi. Come intende realizzare questi obiettivi?
Oltre ai nostri 14 progetti attivi con varietà club, che sposano referenze come uva, fragole, kiwi giallo e mele, è da oltre 20 anni che proponiamo politiche di marca, come ad esempio Almaverde Bio®, cui nel 2010 si è aggiunto Solarelli®, il nostro brand per l’alto di gamma derivato dalla produzione integrata. Sicuramente, il fatto di concorrere con marchi di grandi gruppi e marchi aziendali fa parte del nostro DNA e, fin dall’inizio degli anni 2000, questo ha dato un’impronta molto efficace al nostro business. Ora, sarà importante continuare il nostro rapporto con la Grande Distribuzione e proseguire a proporre una convivenza tra grandi marchi e “private label”.
So che non sempre accetta e condivide le proposte fatte dalla direzione tecnica di Apofruit, ovvero Andrea Grassi, che dispone di larghe competenze professionali. Forse la sua ottica commerciale si discosta dagli obiettivi delle scelte tecniche?
Uno degli obiettivi che la nuova gestione di Apofruit si è data è quella di un nuovo impulso per coniugare le innovazioni varietali alle esigenze di mercato. In altri termini, le innovazioni non devono essere solo belle, ma anche qualitativamente buone, per soddisfare il consumatore, e produttive, per gratificare l’agricoltore. Se non c’è qualità, ma solo marca e nome, ad esempio, una nuova varietà varrebbe ben poco. Questo a volte va a confliggere con novità che i costitutori immettono nel panorama ortofrutticolo; compito di Apofruit è individuare solo le varietà migliori. Teniamo inoltre presente che immettere contemporaneamente sul mercato troppe varietà di una specie, può sortire confusione a diversi livelli: in primis tra i consumatori, che non possono essere così informati da distinguere tra un’offerta eccessiva, ma anche tra i produttori e gli stabilimenti di lavorazione.
Nell’incentivazione di nuovi impianti frutticoli, necessari per riequilibrare gli abbattimenti, pensa più ai soci del Nord o a quelli del Sud per poter tener conto delle vocazionalità ambientali delle varie strutture associate?
Oggi sono il direttore generale di una cooperativa che conta oltre 3.200 soci, dal Nord al Sud Italia; ci mancherebbe che facessi qualche differenza. Sono anzi molto importanti tutti i soci, proprio per sviluppare progetti specifici sulle aree più vocate, come ad esempio il kiwi giallo e le mele al Nord, l’uva da tavola e i clementine al Sud.
Confida più nei contributi Ocm, ora confermati con la nuova Pac, o pensa di motivare i soci produttori con altri tipi di sostegni allo sviluppo frutticolo?
Naturalmente, oltre che aderire a progetti di club, selezionare varietà e fare politica di marca, dobbiamo pensare anche al sostegno che riusciamo a dare ai produttori per fare i loro impianti. Dal 1997 Apofruit è riuscita a mettere in campo la struttura dell’Op e a farla rientrare nell’Ocm per ottenere contributi, ad esempio, per reti antigrandine, irrigazione a goccia o nuovi sistemi di gestione irrigua, assistenza tecnica e altro ancora. Oggi i contributi Ocm sono più importanti di ieri perché gli investimenti sono sempre più costosi: occorrono infatti tra i 40 e i 60mila euro per fare un ettaro di impianti frutticoli innovativi.
Quanto contribuirà il biologico (ora siete a 40.000 t di prodotti ortofrutticoli) nel futuro assetto di Apofruit?
Il biologico è una parte importante della realtà di Apofruit e rappresenta già oggi circa il 30% del suo fatturato. Continuerà anche in futuro ad essere un capitolo fondamentale. Tra l’altro, siamo già in linea con le direttive comunitarie del 2030, che prevedono entro quell’anno l’allevamento in biologico del 30% della superficie agricola. Tuttavia, non ci siamo fermati e abbiamo fatto anche di più, avviando pure il tema del biodinamico, ovvero un ulteriore passo in avanti. Per quanto riguarda la politica di marca, essa viene portata avanti sia nel biologico, sia nel sistema di produzione integrato. Da due anni è poi arrivata anche la certificazione biodinamica con Verdèa®.
C’è poi il problema del rinnovamento delle strutture di lavorazione e ritiro (non solo magazzini, una trentina in Italia) dislocate in varie regioni e magari in parte obsolete. Su quali fondi e finanziamenti punta?
Un’altra importante iniziativa portata avanti da Apofruit negli ultimi due anni è stata quella di cercare di avere una maggiore concentrazione della lavorazione, usando quindi meno magazzini di stoccaggio. Ciò è funzionale anche alla possibilità di dotarsi delle strumentazioni più avanzate, come abbiamo fatto, ad esempio, nel nostro impianto di Cesena per albicocche, mele, pesche e nettarine, dove operano innovative calibratrici intelligenti. Ma non solo: abbiamo macchine che, oltre a pezzatura, peso e colore, riescono a selezionare i frutti con difetti sopra e sotto l’epidermide. Tutto questo significa essere più competitivi e confezionare prodotti in maniera ottimale. Basti pensare che, nei nostri impianti più avanzati, in un solo metro di percorso sono scattate a un singolo frutto oltre 270 fotografie. Per quanto concerne le fonti di finanziamento, abbiamo un ufficio interno che si occupa proprio di percorrere i vari canali possibili, dai fondi regionali, a quelli ministeriali, ecc.
Quale messaggio può dare ai frutticoltori sfiduciati, e sono tanti, che vorrebbero continuare a produrre per il mercato senza affondare nell’indebitamento e a non partecipare ad una quota dignitosa di valore aggiunto del prodotto?
Ciò che ho detto sopra è quello che mettiamo a disposizione del produttore, ogni giorno. In altri termini, anche i già citati 14 progetti che abbiamo attivi con varietà club, permettono al produttore di fare programmi a lungo termine, di essere seguito nel suo percorso e di avere quel giusto grado di sicurezza che il mercato, per un determinato prodotto, vada nella giusta direzione.