Maculatura bruna, botrite, cocciniglia, cimice asiatica, Drosophila suzukii, forficule. L’elenco delle avversità con cui si trova costretto a confrontarsi il mondo della frutticoltura è lungo e in costante peggioramento. Se tracciamo un quadro dell’andamento dell’ultimo decennio fra ingressi di nuove patologie, di nuovi insetti alieni, cambiamento climatico e recrudescenza di avversità già note, lo scenario appare sempre più serio, sfidante e preoccupante, talora disarmante. Quella della difesa efficace è, probabilmente, la madre di tutte le battaglie che i produttori si trovano a combattere in campo. Ma è una battaglia che si gioca anche sui tavoli istituzionali e della politica: come pensiamo di poter affrontare tante e tali avversità se, a monte, ci troviamo di fronte a istituzioni che premono per una riduzione indiscriminata della chimica in campo e un’opinione pubblica indirizzata da slogan di grande effetto, ma mai come oggi con una percezione lontana dalla realtà?
I coltivatori oggi vengono sempre più spesso percepiti non come produttori di cibo, bensì come inquinatori dell’ambiente. Il settore primario paga un’immagine distorta come nessun altro settore produttivo, nonostante i progressi enormi degli ultimi trent’anni dimostrino che l’impatto ambientale dell’agricoltura specializzata sia decisamente cambiato e diminuito, grazie alla vasta applicazione di disciplinari stringenti e mirati e a un’autoconsapevolezza crescente e diffusa (almeno in Italia e nei Paesi più progrediti).
In occasione del recente incontro del Tavolo Ortofrutticolo nazionale ho ribadito come sul nostro settore incombano alcuni delicati dossier comunitari, fortemente connotati dal punto di vista ideologico: in particolare, sul fronte dei fitofarmaci, l’approccio è particolarmente drastico e accompagnato da una mancanza di alternative che lascerebbe i produttori disarmati di fronte anche alle avversità più comuni. E questo avrà, come inevitabile conseguenza, un inesorabile calo produttivo di specie frutticole (a vantaggio di prodotti provenienti da altri Paesi, ben lontani dall’idea di produzione a km zero) e un impoverimento complessivo della ricchezza della nostra biodiversità, che dovrebbe invece rimanere un vanto assoluto del nostro Paese, visto che l’Italia annovera qualcosa come 350 specie vegetali coltivate, contro meno di 30 dei Paesi del Nord Europa.
Invece, complici diversi fattori (economici, commerciali, climatici e di difesa del prodotto dalle avversità), il calo produttivo ha già colpito consistentemente il mondo frutticolo: drupacee, pere, kiwi, ciliegie in alcuni territori potrebbero arrivare a dimezzarsi se non potremo usare la giusta e corretta quantità di chimica in campo. Vale la pena affermarlo a gran voce: i produttori sono i primi a voler usare il meno possibile la chimica in campagna sia per ragioni di rispetto dell’ambiente, sia per la salubrità del loro luogo di lavoro e, inutile negarlo, anche per ragioni di costi sempre più elevati che tutti farebbero volentieri a meno di sostenere. Altre aree, invece, potrebbero vedersi tramutate in enormi “zone di rispetto” dove non sarebbe permesso coltivare nulla.
L’impatto sul tessuto produttivo, economico e sociale (e sull’indotto del mondo frutticolo) sarebbe tremendo: l’Europa é certa di voler procedere lungo questa strada? L’opinione pubblica è consapevole degli effetti che si produrranno? Io non credo che ci sia adeguata coscienza dei possibili esiti di queste posizioni, ma c’è ancora tempo per intervenire. Riduciamo la chimica in campo, su questo siamo d’accordo, ma facciamolo con razionalità, offrendo delle alternative percorribili (fra queste anche le nuove biotecnologie che aiuterebbero a selezionare in tempi brevi varietà resistenti alle malattie) e difendendo soprattutto la sostenibilità economica delle imprese agricole. Altrimenti sarà tutta la società a pagarne il prezzo e sarebbe assai elevato.