Cosa rappresenta il settore dell’olio di oliva nel panorama agroalimentare italiano? Proviamo a stilarne una sorta di carta di identità, tenendo conto delle indubbie prerogative positive del prodotto “made in Italy”, e del settore nel suo complesso, senza però dimenticare le difficoltà che sta attraversando.
L’Italia è da sempre uno dei principali produttori mondiali e crocevia degli scambi internazionali, ma il mantenimento di questo ruolo passa anche dalla presa di coscienza che c’è molto da fare per non perdere competitività. La coltivazione dell’olivo, pur essendo diffusa in tutta la Penisola, resta particolarmente concentrata nelle regioni del Sud, dove si conta quasi il 90% dell’intera produzione nazionale. La fase agricola presenta una struttura molto frammentata, sebbene negli ultimi anni si sia assistito ad un processo di concentrazione che ha portato le aziende dalle oltre 900 mila censite nel 2010 alle 825 mila risultate dall’indagine Spa dell’Istat 2013. La superficie media, ferma per molto tempo sulla soglia di 1 ettaro, è salita a 1,3 ha. A tale proposito, si segnala che, a differenza di molti altri comparti agricoli, l’olivicoltura ha visto negli ultimi anni una riduzione molto limitata legata anche al persistere di una normativa molto restrittiva in materia di espianto degli oliveti che solo negli ultimi tempi ha trovato una sorta di ammorbidimento.
Tra punti di forza e di debolezza
È proprio nella fase agricola, tuttavia, che si evidenzia una serie di criticità strutturali, dalla cui soluzione potrebbe passare il rilancio del settore. Si è tanto parlato, ad esempio, negli ultimi anni, di abbandono, di fenomeni di non raccolta che hanno portato i livelli produttivi medi al di sotto delle 450 mila t, pur restando sostanzialmente invariate le superfici a olivo. Questo è un problema strettamente legato alla poca “economicità” di questi oliveti, soprattutto in particolari areali, e al progressivo invecchiamento dei conduttori dei fondi. L’olivo, infatti, di cui è indubbio il valore paesaggistico e culturale, deve anche essere appetibile da un punto di vista imprenditoriale e, quindi, attrarre nuovi investimenti. Deve, in sintesi, permettere di produrre reddito. Molto spesso, peraltro, si è innescata la perversa spirale che, a fronte di una bassa redditività, si è risposto con scarsi investimenti e scarso impegno nella produzione agricola (assenza di potatura, concimazioni, trattamenti, lavorazioni, ecc.) che porta, a sua volta, a un’ulteriore riduzione delle rese e della redditività.
Quella dell’olivicoltura italiana è una realtà complessa, tenendo anche conto dell’estrema eterogeneità del settore primario che non permette una soluzione che possa valere erga omnes. Analisi Ismea (effettuate nell’ambito del Piano olivicolo nazionale) hanno evidenziato che in Italia non esiste un’olivicoltura, ma differenti tipologie di olivicoltura, legate soprattutto a fattori strutturali, ambientali/orografici, sociali ed economici. Ciascuna “olivicoltura” presenta peculiarità differenti e, di conseguenza, esigenze differenti. Poco meno del 40% delle aziende con olivo può, infatti, essere classificata come competitiva. Alcune sono aziende specializzate in olivicoltura, altre sono multifunzionali, ma il minimo comun denominatore è l’attenzione al mercato. Non mancano poi realtà imprenditoriali molto importanti che già stanno sul mercato con margini congrui rispetto alle proprie aspettative, con impianti moderni, irrigui, meccanizzabili.
L’augurio di molti è che si possa arrivare, anche tramite la ricerca, ad accrescere la produzione con varietà italiane che si prestino maggiormente alla meccanizzazione. Più produzione e meno costi innalzerebbero i margini di guadagno. Questo è il vero nodo da sciogliere anche perché sui grandi numeri l’Italia deve rincorrere il prezzo di vendita stabilito dal mercato spagnolo. È solo sulle qualità più elevate che il margine di manovra è più ampio.
Inoltre, se si vuole essere “player” affidabili per i “buyer” della distribuzione italiana ed estera bisogna in qualche maniera garantire la quantità o, almeno, contenere al minimo le oscillazioni produttive. Le ultime campagne hanno mostrato, invece, una certa debolezza del sistema in questo ambito ed hanno reso evidente che solo una conduzione oculata e professionale può dare luogo, anche in condizioni pessime dal punto di vista climatico, ad una produzione qualitativamente e quantitativamente accettabile. Di fatto, la produzione italiana ha oscillato tra le 180 mila e le 480 mila t, forse un po’ troppo per garantire al mercato una certa stabilità in termini di offerta.
Il settore oleario italiano gode, comunque, di tanti punti di forza. Uno tra tutti è l’ampia gamma varietale che, grazie alle oltre 350 varietà, fa dell’olio di oliva italiano il più ricco, in termini di aromi sapori e profumi, dell’intero panorama mondiale. Scendendo più a valle nella filiera produttiva si evidenzia che non c’è una separazione netta tra la produzione di olio in senso stretto, quindi l’attività legata ai frantoi, e la fase più strettamente inerente l’imbottigliamento.
Sono circa 5.000 i frantoi attivi in Italia, un’enormità, se si considera che la Spagna, con una produzione tre volte superiore in media a quella italiana, ne conta 1.600. Molti frantoi di dimensioni medio-piccole, a volte proprietari anche degli oliveti, sono integrati verticalmente; diversamente, le grandi aziende del settore presentano una spiccata specializzazione, tipica delle imprese industriali in senso stretto: acquistano olio, eventualmente lo miscelano, lo imbottigliano, di norma lontano dai luoghi in cui questo viene prodotto, per poi commercializzarlo. Alcune di queste imprese, peraltro, hanno visto il proprio assetto societario passare in mani straniere.
L’alto numero dei frantoi, comunque, va letto anche in chiave positiva. La presenza capillare sul territorio e l’estrema vicinanza ai luoghi di raccolta favorisce la frangitura delle olive in tempi strettissimi, preservando così tutta la qualità del prodotto. C’è poi la grande industria che confeziona per lo più prodotto acquistato sul mercato, sia interno che estero, ed è concentrata in prevalenza nel Centro-Nord. Le attività caratteristiche vanno dalla selezione della materia prima, acquistata in tutti i Paesi produttori, generalmente del bacino del Mediterraneo, fino alla vendita di oli confezionati direttamente al distributore finale. A fronte di tale scenario si sottolinea il “saper fare” dell’industria di imbottigliamento nazionale, capace di imporsi con una spiccata personalità sui mercati internazionali come ambasciatore dell’agroalimentare italiano.
Italia crocevia degli scambi internazionali
Nel settore dell’olio di oliva convivono queste due anime, quella più strettamente produttiva e quella a vocazione commerciale che negli ultimi tempi sembrano aver trovato un momento di composizione degli interessi. Nel 2015, infatti, rappresentanti di olivicoltori, frantoiani, industria e commercio si sono impegnati “formalmente” a collaborare per una maggiore coesione nel settore. Un paradosso, l’ennesimo del settore oleario italiano, è costituito dall’incapacità di utilizzare pienamente il massimo strumento di garanzia dell’origine. A fronte, infatti, di un elevato numero di riconoscimenti (42 Dop e 3 Igp), la produzione di olio certificato non supera il 2-3% del totale (tra le 10 e le 12 mila t), che sale di alcuni punti percentuali ragionando in termini di valore. Da sottolineare che in molti areali il prezzo del prodotto certificato non si discosta in modo significativo da quello “convenzionale” e questo scoraggia molti produttori che non vedono la convenienza economica a portare a termine l’iter della certificazione e a sostenere i relativi costi.
Si è mantenuto, intanto, il ruolo fondamentale negli scambi internazionali: primo importatore e secondo esportatore mondiale. In termini produttivi l’Italia è seconda dopo la Spagna, anche se in alcune delle ultime campagne, disgraziate per i volumi ottenuti, si è vista superare o dalla Tunisia o dalla Grecia.
Negli scambi con l’estero l’Italia è strutturalmente importatore netto in volume, mentre gli ultimi anni sono stati caratterizzati anche da un surplus valutario nella bilancia commerciale. La spesa per l’import di olio di oliva e sansa rappresenta il 3% del valore dell’import di prodotti agroalimentari e, contemporaneamente, le vendite costituiscono il 4%. L’acquisto di ingenti quantitativi di prodotto estero è prevalentemente guidato dalla necessità dell’industria di trasformazione nazionale di raggiungere determinati volumi di olio d’oliva che viene importato sfuso e che viene utilizzato per ottenere “blend” a loro volta imbottigliati ed esportati o esitati sul mercato interno.
La forte dipendenza italiana dal prodotto estero deriva in larga misura proprio dalla struttura dell’industria confezionatrice italiana, ma c’è da rimarcare che la produzione nazionale non sarebbe, comunque, sufficiente per i consumi interni, che superano mediamente le 550 mila t. Differenti sono, quindi, le caratteristiche degli attori che operano all’interno del settore dell’olio di oliva e le dinamiche di mercato. A questo si aggiunge, a valle della filiera, la grande distribuzione che utilizza da anni olio extra-vergine di oliva come prodotto civetta, con una pressione commerciale fino al 70 % trattandolo di fatto come una “commodity”; questo è certamente un problema per i produttori italiani che “non si riconoscono” nei prezzi di vendita praticati dalle grandi catene distributive.
L’innalzamento dei parametri qualitativi è il tema che sta al centro dei dibattiti attuali del settore. Sul prodotto standard, che si può definire “di massa”, l’Italia compete a fatica con i sistemi produttivi spagnoli, decisamente meno costosi. Le principali opportunità per lo sviluppo del comparto sono riconducibili ad una crescita della richiesta di olio d’oliva a livello internazionale legata alla notevole rilevanza del prodotto in termini salutistici, insieme ad una maggiore sensibilità dei consumatori nei riguardi delle produzioni di qualità.
La domanda mondiale di olio di oliva è cresciuta in modo lento, in media dell’1% annuo, ma costante fino al 2012. Da quel momento in poi anche il consumo mondiale si è sostanzialmente attestato intorno ai tre milioni di t, anche a seguito di campagne produttive piuttosto “ballerine”.
L’olio di oliva in totale rappresenta solo il 4% dei consumi mondiali di grassi e questo implica un buon margine di crescita del mercato, soprattutto in Paesi dove non c’è ancora tradizione di consumo. A crescere dovrà essere però anche la domanda di olio di fascia alta, dove l’Italia può, anzi deve, giocare un ruolo fondamentale. Peraltro, anche i “competitor” non stanno a guardare. Anche la Spagna ha investito molto nella qualità del prodotto, altrettanto sta facendo la Tunisia. Nel nuovo mondo si stanno affacciando sul mercato anche Stati Uniti, Cile, Argentina e Australia.
I numeri della campagna 2016-17 e le aspettative future
Questo il quadro generale, ma vediamo cosa è successo nella campagna appena conclusa. Sulla base delle dichiarazioni dei frantoi fornite ad Agea, Ismea stima per la campagna 2016-‘17 una produzione pari a 182 mila t, il 62% in meno rispetto all’anno precedente. È stata questa, quindi, l’annata peggiore degli ultimi decenni, superando in negativo il 2014 che, con un volume produttivo pari a 222 mila t, era stato considerato annus horribilis dell’olivicoltura italiana. Situazioni climatiche avverse, attacchi di mosca ripetuti sono alla base di questo risultato. La cosa da evidenziare a proposito degli attacchi di mosca è che questa infestazione si manifesta in modo così virulento e drammatico in media ogni dieci o quindici anni. Invece il 2016 ha ricalcato, in peggio, quanto già accaduto solo due anni prima.
La flessione produttiva non si è registrata solo a livello italiano, ma anche mondiale. La Spagna ha prodotto il 9% in meno, attestandosi a 1,3 Ml t. In flessione anche Grecia e Tunisia. Nel complesso sono stati sfiorati i 2,5 Ml t contro i tre della campagna precedente.
I prezzi alla produzione hanno raggiunto livelli molto elevati, ma che, da un certo momento in poi, sono diventati più nominali che reali per l’assottigliarsi delle scorte e questo è alla base della stanchezza del mercato nell’ultimo periodo. Guardando la curva delle quotazioni dell’extra-vergine si osserva per il 2017 un andamento analogo a quello di due anni prima quando, anche in quel caso, si è dovuto far i conti con una produzione molto al di sotto della norma. I prezzi medi dell’extra, infatti, nei primi mesi dell’anno sono tornati sui 6 euro al chilo, livello che si è registrato per la prima volta solo nel 2015, per poi stabilizzarsi qualche centesimo al di sotto dei 5,90 €/kg. Da gennaio a luglio 2017 i prezzi medi dell’extra sono saliti del 61% rispetto ai primi sette mesi dell’anno prima, mentre vergine e lampante sono cresciuti rispettivamente del 38 e del 25%.
Nel Barese l’extra-vergine a marzo ha toccato i 6,14 €/kg, praticamente un record, per poi ridiscendere a 6,09 nel mese successivo, mentre tra maggio e luglio è sceso progressivamente fino agli attuali 5,82 €/kg. In Calabria fino a maggio i listini non sono scesi sotto i 5,75 €/kg, mentre a settembre hanno perso qualche centesimo e si attestano nella forbice 5,4-5,7 €/kg. In Sicilia si è restati per tutto il periodo sopra i 6,5 €/kg, ad eccezione del Trapanese dove i listini sono stati fissati sui 6,35 euro al chilo.
Fuori dai confini nazionali i prezzi dell’extra sono aumentati in misura meno accentuata. In Spagna, infatti, dove la produzione ha subito una flessione intorno al 9% sulla campagna precedente, da gennaio a luglio i prezzi sono aumentati del 23%, mentre in Grecia e Tunisia si ha rispettivamente +21 e +26 %. In termini più di brevissimo termine, anche nei maggiori Paesi nostri “competitor” nelle ultime settimane si ha una riduzione dei listini, sebbene di pochi centesimi di euro.
Nel frattempo, sono restati elevati i listini degli oli lampanti. Da gennaio a luglio i prezzi internazionali del lampante sono saliti del 25% ovunque, tranne in Tunisia dove la crescita di fermata al +14%. Il prodotto spagnolo, dopo aver raggiunto i 3,9 €/kg di maggio, ha chiuso l’estate a 3,81 €/kg. Italia, Grecia e Tunisia hanno esitato a luglio il loro prodotto tra i 3,28 e i 3,4 €/kg.
Anche il mercato degli oli Dop nel 2017 ha subito forti rialzi. Sono soprattutto gli oli meridionali ad aver fatto registrare gli incrementi più elevati. Per le Dop delle Sicilia occidentale (Val di Mazara, Valli del Belice e Valli Trapanesi), i listini medi hanno superato di gran lunga i 7 euro/kg, con aumenti di oltre il 70% rispetto all’anno prima, mentre per le Dop della parte orientale dell’Isola le variazioni sono state più contenute. In Puglia si va dal +50% della Dop Dauno, al +65% della Dop Terre di Bari.