Senza aggregazione e qualità la peschicoltura smobilita?

peschicoltura
Peschi dopo la potatura
Un disastro annunciato, nonostante fiumi di parole, propositi e programmi rimasti perlopiù sulla carta o limitati a pochi, straordinari ed inefficaci interventi pubblici.

Ci è difficile comprendere fino in fondo la situazione della perdurante crisi del settore pesche, che ha nuovamente colpito e scoraggiato i produttori di pesche e nettarine, salvo poche eccezioni, al Nord come al Sud.
Evidentemente, l’offerta di pesche, gestita frammentariamente da cooperative/consorzi e da singoli gruppi di produttori, in aperta concorrenza fra loro, non è riuscita a fronteggiare un mercato aperto al prodotto estero e senza che le deboli misure messe in atto dall’Ue abbiano avuto alcun effetto (ritiri autorizzati in misura fra l’altro assai inferiore a quelli della Spagna). Nel pesco, purtroppo, non si è ancora formata un’aggregazione dell’offerta sufficiente per incidere sui prezzi. Mancano le iniziative (es. “brand” fiduciari e territoriali), impostesi sul mercato a favore di mele, pere, kiwi, anche per poter sviluppare una politica dei prezzi.
L’organizzazione interprofessionale Oi (Ortofrutta Italia) è impegnata, con il patrocinio ministeriale, ma con pochissimi aiuti finanziari, in una campagna promozionale delle pesche impostata quest’anno sul richiamo alla stagionalità e territorialità dei consumi. In quattrocento punti vendita dell’intero Paese sono stati messi gli annunci della campagna di promozione scolastica dei consumi di frutta per il prossimo anno. Poi è fatto un accordo con le Gdo per semplificare la presentazione sui mercati della “nomenclatura varietale” sulle confezioni delle pesche e nettarine gialle, una delle ragioni che impediscono ai consumatori di riconoscere e apprezzare il valore delle singole varietà, tanto queste sono numerose. Due, per ora, sono le linee di suddivisione delle pesche e nettarine secondo la proposta di Ortofrutta Italia: a) “tradizionali”, succose e dolci-acidule; b) “smart”, amabili e dolci (comunemente, ma erroneamente definite subacide).
La Romagna è l’area più colpita dai bassi prezzi, tanto che, con molto ritardo (sono passati quasi venti anni dall’Igp concessa nel 1998 alla “Pesca e nettarina di Romagna”), ha chiesto il riconoscimento del Consorzio di Tutela costituito fin dal 2002 ai fini del controllo delle attività; Consorzio che copre cinque province, da Bologna a Rimini, ma per una superficie certificata di appena 200 ettari (non è un errore di stampa!). Il Cso Italy ci informa di un importante accordo con la catena di supermercati Alì per lanciare in alcune province un’accoppiata tra “Pesche e nettarine di Romagna Igp” e “Coppa piacentina Dop”. Di fatto, il solo grosso programma di promozione della frutta, incluse le pesche, e del latte nelle scuole è supportato dalla Comunità che per l’ortofrutta ha destinato all’Italia ben 21,7 milioni di euro nel biennio 2017-18. Ma sono solo queste le strade da seguire per riportare a dignità la coltura del pesco? Per risollevare anche il livello qualitativo del prodotto, che forse non è più sufficientemente curato come in passato?
Non vorremmo che una certa e generale sfiducia nel pesco prendesse il sopravvento. Per qualcuno questa coltura è già in via di abbandono, soprattutto in alcune zone tipiche del Nord, proprio laddove si dovrebbe invece fare di tutto per difendere le posizioni di mercato. I Paesi concorrenti sono pronti ad occupare gli spazi lasciati liberi dall’Italia. La Coldiretti denuncia la poca trasparenza e i mancati controlli dell’importazione di prodotto dalla Spagna e da altri Paesi del Sud. La Cia dell’Emilia-Romagna denuncia per l’ennesima volta lo scandalo del divario di prezzi fra la produzione (fra 0,15 e 0,30 €/kg, con costi di coltivazione che arrivano fino a 0,5-0,7 €/kg!) e Gdo che, salvo offerte particolari, fa poi salire i prezzi medi a 2–3 €/kg. Ma chi tutela il reddito dei produttori? Notizie come questa sconcertano al momento, ma poi lasciano indifferenti la stampa ed i consumatori. Tanto ci siamo abituati!
Anche nel Veronese la situazione della peschicoltura, un tempo florida in molte zone, da Zevio a Bussolengo, fino al Garda, è drammatica. Domina la totale sfiducia nella possibilità di ripresa in futuro della coltura. Se ne fa portavoce Lorenzo Frassoldati, un giornalista che esce dal coro dei velinari proni all’autoreferenzialità e al conformismo imperante; ha scritto che la “Gdo fa i comodi suoi, margina sui prezzi bassi all’origine e se qualcuno obietta risponde: dovete fare più qualità e programmare meglio”.
Il 2017 è dunque un’altra annata disastrosa, nella quale l’Italia ha perso ulteriormente peso sui mercati europei che contano e pagano bene (i discount tedeschi vendono le pesche italiane ad appena 0,50 € al cestino!).
Anche ilvolenteroso appello lanciato dal Tor (“Tavolo Ortofrutticolo Romagnolo”, promosso da Cso con Agrintesa, Apofruit, Granfrutta Zani, EuropFruit, Minguzzi, Naturitalia, Orogel Fresco e pochi altri) non ha sortito grossi effetti; era uno spot radiofonico con messaggio narrato sulle “fresche e buone pesche romagnole”. L’annunciato tavolo ortofrutticolo nazionale è ancora latitante e il Ministero lo convocherà solo dopo le ferie estive! È questo che vogliamo? Per favorire un’altra drastica riduzione delle superfici?
Non sarebbe meglio intraprendere prima auspicabili misure strutturali, a cominciare dalla sottrazione dai mercati delle pesche di scarso valore e sottomisura (come le pezzature D prima e C poi)? Mancano certamente le condizioni per assumere, a livello nazionale, decisioni erga omnes come questa. L’aggregazione, dunque, è ancora insufficiente, anche perché viene finora intesa come crescita dei gruppi attuali (cioè i più grossi che assorbono gruppi minori) e non come aggregazione dei gruppi grossi per assumere iniziative comuni. I mercati, comunque vada, si salveranno con l’importazione e così pure i consumatori avranno pesche straniere in maggiore quantità e magari di migliore qualità (si veda la capillare e massiccia penetrazione delle pesche spagnole, soprattutto quelle piatte, in tutti i nostri mercati); ma, se così sarà, il nostro settore peschicolo tradizionale sarà costretto ad abdicare. C’è da chiedersi: ma gli organismi politici sono attenti alle conseguenze di questa possibile smobilitazione?
Una volta si sentivano forti accenti (a parole) sulla necessità della programmazione degli impianti e sul censimento catastale, sugli incentivi ancora oggi disponibili (affidati per il rinnovo dei frutteti ai soli gruppi associativi attraverso l’Ocm), oppure sulla tutela della produzione integrata. Si sono fatte molte chiacchiere sugli accordi stipulati con gli altri Paesi mediterranei attraverso l’Arehfl per interventi comuni e coordinati, ma non sembra che ciò sia avvenuto. Si salverà in futuro, forse, solo la coltura biologica del pesco, come sostiene qualche esperto?
Sapremo risvegliarci da questo torpore e fare qualcosa che conti?
Ognuno per sé e Dio per tutti!

Senza aggregazione e qualità la peschicoltura smobilita? - Ultima modifica: 2017-09-08T14:23:42+02:00 da Lucia Berti

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